squillo

Con la forza spaventosa di una deflagrazione. Perchè ciò che sta emergendo dalle intercettazioni telefoniche e dalle prime indagini è uno scenario desolante che fa da sottofondo ad una certa giovinezza: il fenomeno delle baby-squillo – strettamente collegato ad altri fenomeni che da anni legano il mondo dell’adolescenza e del ricatto – evidenzia la trama di un tessuto umano le cui storie fanno rabbuiare la speranza. Non è solo questione di fragilità dei giovani coinvolti: c’è la complicità di alcune famiglie, l’incentivo a “battere” quella strada per aprirsi un’esistenza, la folle idea che il corpo ti possa far giungere a quegli orizzonti altrimenti ostici da conquistare: la notorietà, i soldi ma anche semplicemente il sentirsi attori protagonisti dentro un racconto che qualcuno un giorno troverà il coraggio di narrare. Relegare questa deflagrazione al quartiere dei Parioli a Roma (o alla terra terremotata de L’Aquila, come denunciato dal suo Vescovo) significherebbe semplicemente chiudere gli occhi di fronte ad un’emergenza che è più generale, forse molto più vicina a noi di quello che potremmo pensare: in fin dei conti basta un clic sul mouse per iniziare ad abitare strani percorsi che possono poi condurre a strani approdi.
Il mondo della giovinezza – sopratutto quando si tratta di giovinezze che stanno per deragliare – rappresenta oggi una di quelle periferie esistenziali che incutono più timore: per senso di impotenza, per la paura di scarti inattesi, per incomprensibile menefreghismo. Molto semplice relegarli come piccoli inconvenienti di passaggio, molto più educante saperne leggere i piccoli dettagli della vita quotidiana: in fin dei conti, anche nella sua eccezione più biblica, essere profeti non è tanto prevedere il futuro di una storia ma molto più arditamente saper leggere i piccoli dettagli del presente illuminandoli di una prospettiva che lo supera. Per questo, forse, più che analizzare ciò di cui certe giovinezze si rendono protagoniste – fossero anche le azioni più tumultuose – la vera sfida è quella di cogliere quei processi interiori che si svolgono dentro il loro animo e che poi, una volta organizzati, danno vita a quello che tutti possono vedere. E’ un lavoro molto più delicato, perche talune domande vivono da forestiere dentro la loro (mia) anima, quasi fossero scritte in una lingua straniera incomprensibile: “chi sono, da dove vengo, verso dove sto andando, quale traccia sto abbozzando, che ne farò di questa esistenza”. Domande che forse non giungono subito a trovare risposta ma che valgono la conquista più bella, anche se a tutt’oggi insopportabile: la possibilità di vivere quelle domande, di abitare in quella strana geografia interiore. Di trattenere forse quella pazienza che nell’adolescenza ha spesso il gusto amaro di un “essere in ritardo”: rispetto agli altri, rispetto ad un clichè, rispetto a chissà che cosa. A quindici anni bello è poter dire “ho quindici anni” e non “me ne mancano quindici per averne trenta”. Perchè poi a trent’anni è forte il rischio di dirsi: “quindici anni d’inutile inseguimento”. E scoprire d’aver vissuto per anni facendo ombra.
La prostituzione di un’adolescente è uno scarto che inquieta. Eppure c’è un’inquietudine ancor più profonda da tradurre: la consapevolezza che per tante di loro la vita possa essere letta come una sequenza di momenti casuali, senza un vero significato che li tenga stretti tra di loro. Etty Hillesum, giovane ragazza morta ad Auschwitz nel 1943, mentre la morte avanzava possente verso lei e la sua stirpe, scrisse nel suo Diario: “Voglio sempre restare in contatto con la parte profonda da cui germogliano le parole, altrimenti mi sento come una nave che ha perso gli ormeggi”. Laddove gli ormeggi non sono solo prigioni che bloccano la navigazione, ma punti di riferimento quando il mare è in piena burrasca.

(da Il Mattino di Padova, 10 novembre 2013)

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