Francesco

Un gesto che ai loro occhi fu letto come una dichiarazione d’amore: quel varcare la porta del carcere minorile di Casal del Marmo a pochi giorni dalla sua elezione a Papa, divenne il primo incontro tra lo sguardo di Francesco e il mondo dei detenuti. Un uomo con addosso gli odori delle periferie che non ha esitato un istante nell’andare a cercare ciò che era perduto; iniziando dal ventre delle galere, laddove la Grazia e la disgrazia ingaggiano duelli quotidiani e strazianti. Da quel giorno, chino a lavare quei piedi giovani che raccontano viaggi su strade di perdizione, la figura del detenuto è entrata tra le sue compagnie preferite, sin quasi a diventarne imbarazzante: nella logica dei Vangeli in qualsiasi caos l’uomo abiti quello sarà il punto di partenza di ogni ritorno verso di Lui.
Il caos della galera, per l’appunto: laddove i fili del bene s’intrecciano di continuo con i fili del male. In quel caos Francesco sogna la Chiesa come “un ospedale da campo dopo una battaglia”: c’è l’urgenza di un annuncio – “Dio non si stanca di perdonare. Il problema è che noi ci stanchiamo di chiedere perdono” – prima di dare l’inizio alle singole diagnosi. C’è la fretta evangelica di annunciare la possibilità di un Padre a gente che spesso avverte di non appartenere più a nessuno, di essere orfani di paternità alcuna. Parole che producono una eco disarmante nel cuore di questa gente, diffidente a fare pace con quell’annuncio cantato nella liturgia feriale: “l’amore vince l’odio, la vendetta è disarmata dal perdono”. Ma quando porgi loro il pensiero di un Papa, anche nella sua più piccola metafora, i loro occhi s’illuminano: di speranza, prima di tutto. Perchè un Papa che parla della Chiesa paragonandola alla mamma di un detenuto che è capace di “metterci la faccia” è un Papa che conosce la logica degli affetti e dei legami, di quella maternità che non s’arresta nemmeno di fronte al grigiore freddo delle sbarre di un carcere. Francesco annuncia la Misericordia e loro rispondono a modo loro: rincasano nelle celle con una domanda in più a scardinare le loro presunte certezze, con l’amabilità di una carezza che sulla soglia rammenta loro che “nessuna cella è così isolata da escludere il Signore”. Nessuna di quelle in cui abita l’uomo che nella vita ha sbagliato, fin quasi a smarrirsi nei sentieri della dimenticanza.
Li vedi spesso con buste in mano a chiedere francobolli a chiunque. Ormai la destinazione è quasi scontata: “Papa Francesco – Città del Vaticano”. Qualcuna l’istituzione la blocca: sono lettere pericolose. E il pericolo sta in quel lento confidarsi a Francesco come ad un papà, quel raccontargli la loro vita in bilico tra bellezza e miseria, tra tradimenti e promesse; quel volerlo avere anche solo cinque minuti nella cella della propria memoria come preludio di una confidenza a lungo cercata. Dentro quelle buste ci sono tracce di uomini che lottano: con i loro rimorsi e le loro notti insonni, con la memoria del loro passato e quella del loro futuro, con se stessi e con Dio. Gli scrivono perchè hanno preso sul serio che “non c’è peccato o crimine che ci possa allontanare dal cuore di Dio”. Di Dio abbiamo sempre cantato la pazienza; domenica scorsa con Zaccheo Dio sembrava avere fretta: “scendi subito”. Era in gioco l’annuncio più inatteso: “oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 19,1-10). In questa cella dove un Papa ha dipinto il ritratto più bello: la misericordia e la giustizia che camminano a braccetto per rimettere in piedi esistenze cadute.

(da Avvenire, 14 novembre 2013)

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