Con un crisantemo tra le mani e la mestizia nel cuore. Perchè novembre – mese di autunni colorati e di frutti che giungono a maturazione – s’apre sempre con l’immagine austera del cimitero: tra i santi da festeggiare e i defunti da ricordare, scorre il preludio di un mese che è memoria di un passato da rivisitare e occasione per un futuro da organizzare; nel presente di una storia che non prevede prove iniziali ma getta ogni attore allo sbaraglio della scena. Solitamente circondato dalla serietà dei cipressi e illuminato dalla fioca luce dei lumini, ogni cimitero è come l’eco di quella frase con la quale nell’antichità uno dei servi più umili accoglieva il generale che rientrava dopo un trionfo bellico: “memento mori” (“ricordati che devi morire”). Un invito a tenere i piedi per terra anche se con la corona di gloria sul capo: è il prezzo di ogni natura umana.
Perchè ogni cimitero somiglia ad una medaglia dalla doppia faccia. Quella più nobile e ragguardevole: è il luogo della memoria e della gratitudine, l’incrocio di mille sangui e di altrettante voci, il crocevia che collega il passato delle generazioni andate con il futuro di quelle a venire, la conoscenza di ciò che è stato e la grammatica di quello che è, e forse sarà. Abitare per qualche istante un cimitero, magari sostando sul limitare di qualche tomba, non è un gesto che porta sfortuna: è avvicinarsi con piedi di velluto alle sorgenti della propria storia, è raccogliere il testamento di chi ha scritto i capitoli precedenti il nostro, è voler andare avanti voltandosi indietro. Perchè quelle tombe sono come urne che trattengono un sapere da raccogliere, senza disperderne neppure il minimo rigo. Sotto la terra vive l’umanità che ci ha preceduto: la loro eredità si raccoglie lentamente, la loro presenza – trasformata dalla morte – occorre che la si pianga a lungo, il loro ricordo necessita di anniversari con i quali rivangarne la memoria. Entrare in un cimitero è voltarsi indietro molte volte per fare attenzione a non perdere nulla: un sospetto, uno sguardo, l’eco di un ammonimento. Il fascino di una presenza la cui assenza racconta di una vicinanza ancor più ardita. E’ creare confidenza con la propria stirpe.
Un cimitero è questo, ma è anche l’altra faccia della medaglia: sono tombe scarne seppur impreziosite di fiori, sono nomi spogli con pochi numeri accanto, di nascita e di morte. Tra l’uno e l’altro un semplice trattino a distanziarli: e dentro quel trattino c’è la sintesi di una storia. La storia di chi è venuto al mondo solo per fare ombra e di chi si è guadagnato i giorni sudando la terra; di chi è vissuto nel suo presente facendo parlare di sé al passato e di chi il suo presente se l’è giocato fino all’ultimo esile respiro; di chi ha vissuto nella nobiltà e nella vigliaccheria, nella crudeltà e nell’amabilità, nello stupore e nell’abitudine; gente morta straziata nelle sue carni, usurata dalla stanchezza e gente morta nuova di stecca. Gente che ha amato la vita, gente che l’ha temuta, gente che l’ha tradita: i cimiteri custodiscono le ceneri di gente che è morta come è vissuta. Lì dentro sono tutti uguali, quasi che la partita della storia di quaggiù si fosse ri-azzerata e tutto fosse pronto per dare inizio a quella di lassù, la storia vera. Fuori tutto: capitali e investimenti, poderi e appezzamenti, notai e avvocati. Soldi liquidi, terre fabbricabili e soldi in avanzo. Fuori tutto: nella memoria di un cimitero – nell’intermezzo tra l’umano e l’Eterno – ad essere custoditi sono solo i gesti compiuti e il loro significato più profondo.
A passeggiare tra le tombe, piccoli particolari colpiscono: un crisantemo, una data, uno scatto di fotografia. Un semplice rimbalzo di ricordi che sembravano perduti. Piccoli particolari, con uno grande a sovrastarli: i cimiteri sono pieni zeppi di persone che si pensavano indispensabili per l’umanità.
(da Il Mattino di Padova, 3 novembre 2013)