(Pubblico con riconoscenza il testo della meditazione di questa mattina tenuta con oltre duemila ragazzi/e del Rinnovamento dello Spirito a Palermo dal titolo “Voi siete il campo di Dio”. Con un grazie grande per questa giornata di grazia vissuta assieme con voi. Mi siete entrati subito nel cuore!)
Palermo, 20 ottobre 2013
Convegno Giovani RnS Sicilia – “Voi siete il campo di Dio”
Anni dopo la morte, sfogliando i brogliacci delle sue carte hanno trovato un appunto. La calligrafia era la sua, quella di don Oreste Benzi, il gigante di Dio dalla tonaca lisa. Era un appunto, quasi il suo testamento. Rivolto ai suoi giovani: tossici e clochard, prostitute e detenuti, falliti e banditi. In quel foglietto ci sta scritto: “(Giovani) ribellatevi, non con la violenza ma con la vita, senza mai demordere. Siate come un rullo compressore vivente che non lascia tranquillo nessuno. Non scendete a compromessi, riappropriatevi della gestione della società. Siete stati sradicati dalle vostre origini, vi è stato tolto il futuro dalle mani, siete costretti a consumare emozioni. Per il sistema è meglio che voi siate drogati. Io spero che i giovani si sveglino (Vostro, don Oreste)”. Qualche secolo prima un altro condottiero, Saulo/Paolo di Tarso, alla sua gente di Corinto – gente avvezza al traffico ambiguo di una città portuale – ricordò loro il canovaccio di una vecchia storia: “Quando uno dice: «Io sono di Paolo, e un altro: «Io sono di Apollo, non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo? Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede (…) Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio” (1 Cor 3,4-9). “Voi siete il campo di Dio”. Cosa significherà mai questo se non l’augurio più imbarazzante che si possa rivolgere, carissimi ragazzi?
1. “Voi siete”. Indicativo, non congiuntivo o condizionale.
Non voglio trattarvi da bambini, ma vi ricordate la grammatica italiana? Fosse un compito di italiano, stamattina dovremmo scrivere: “voce del verbo essere, modo indicativo, tempo presente, seconda persona plurale”. Non è un’esortazione (per questo ci sarebbe il congiuntivo, “che voi siate”), non è un comando (sarebbe compito dell’imperativo, “siate!”) e non è nemmeno una possibilità (dovremmo fare uso del condizionale, “sareste”): è l’indicativo presente, “siete”. Perché Dio non illude, non rimanda, non posticipa: Dio irrompe nell’attimo della tua storia per fartela giocare da protagonista. A voi il mondo promette il futuro, ma nel frattempo vi ruba il presente: perché ha paura della vostra giovinezza, della freschezza dei vostri ideali, dell’ingenua bellezza di chi avverte tutta la forza dei suoi vent’anni. Ha paura, per questo vi parla sempre del futuro e mai del presente: per farvi stare buoni, per tenervi sotto assedio, perché “fare spazio” a voi significherebbe mettersi da parte. C’è tutta una storia, invece, che vi assicura che Dio a voi ci crede per davvero: la storia di Davide che sfida Golia, di Geremia lamentava d’essere troppo giovane, di Tobia invitato da un angelo a sposare la sua donna; eppoi di Giosuè gettato nella mischia dopo il grande Mosè. La storia d’insopportabile bellezza di Maria, ragazza giovanissima ma tremendamente capace di Cielo. A loro Dio per primi ha detto: “voi siete, tu sei!” Non sarai: anzi sarai/diventerai ciò che decidi di essere oggi. Potresti diventare anche tu profeta per conto di Lui. Come Ivar.
Ivar Benjamin Oesteboe è uno dei ragazzi scampati alla strage di Utoya. Anche lui c’era quel giorno. Vi ricordate cosa stavano facendo? Erano protagonisti di un campus estivo: probabilmente stavano riflettendo sul futuro del pianeta, sul possibile protagonismo giovane in politica, sull’organizzazione della speranza per la loro nazione. Sessantanove suoi amici sono caduti sotto la furia omicida. Chissà perché, ma Ivar è scampato alla strage; non sempre scampare, però, significa sentire il cuore battere di gioia. C’è chi esce con una forza in più come Viktor Emile Frankl, c’è chi avverte la colpa di non essere morto pure lui come Primo Levi; e c’è chi come Ivar ha deciso di tornare a vivere nel nome degli amici. Ivar conosceva la coniugazione del verbo essere: “Tu sei, Ivar” avrà sentito sussurrare nel suo cuore. Ha preso carta e penna e ha scritto una lettera. A chi? Ad Anders Behring Breivik, il killer che gli ha rubato gli amici e complicato la speranza. Senti la forza dirompente delle sue parole: “Tu crederai forse di aver vinto (…) – scrive Ivan all’assassino – A Utoya, in quella calda giornata di luglio, tu hai creato alcuni fra i più grandi eroi che il mondo abbia mai prodotto, hai radunato l’umanità intera (…) Io non sono arrabbiato – conclude il ragazzo – Io non ho paura di te. Non ci puoi colpire, noi siamo più grandi di te. Noi non risponderemo al male con il Male, come vorresti tu. Noi combattiamo il Male con il Bene. E noi vinceremo”. Certo che vincerete, ragazzi: se solo avrete il coraggio di firmare la vostra vita da protagonisti: non lasciate che nessuno la firmi al posto vostro, non ve lo perdonerete mai. E allora innamoratevi della vita, non immalinconitevi. Cantate, ballate, suonate la musica e scrivete canzoni. Amate la vostra terra: la ginestra dei Nebrodi, l’orchidea di Branciforti, il fiordaliso delle Eolie. Il profumo di zagara e quello di mandorla, il colore dei gelsi, dei fichidindia e dei melograni. Giocatevi tutte le possibilità, abitate le contraddizioni della vostra terra: non è la terra dei padrini, è casa tua, è casa nostra. Vi rideranno dietro perché siete inesperti, ingenui e dilettanti, come hanno riso dietro a don Pino Puglisi, come ridono dietro a don Fortunato Di Noto, come stanno irridendo tanti uomini e donne dal cuore grande: ricordate a tutti costoro che il Titanic fu costruito da professionisti e affondò negli abissi. L’arca della Scrittura fu costruita da Noè, un agricoltore: resse, però, la furia violenta di un diluvio disastroso. “Voi siete” E anche il contrario: “siete voi!”. Punto e a capo. Siete il presente, quelli che costruiscono il futuro senza dimenticare il passato: cioè siete l’oggi. Non perdere tempo, ti prego: la tua faccia è l’unica storia che puoi raccontare solo tu! Non puoi delegarlo ad altri: non sarebbe giusto nei confronti di Dio, della storia. Di te.
2. “Il campo”. L’immagine quotidiana dell’Eterno.
E’ un’immagine bellissima quella del campo: un’immagine che parla da sé. La capisce il contadino di Sicilia: vi immagina i fiori di mandorla e i limoni di Selinunte, il cardo di Boccone e le mandorle di Avola, i gelsi e i castagni. La capisce lo sportivo: il campo da calcio e quello da baseball, il campo d’allenamento e quello da gara, il campo sintetico e quello d’erba. Eppoi tanti altri campi: il campo/scuola, il campo di concentramento, il campo di lavoro. Il campo è terra ma anche possibilità, tante possibilità: chi ha un campo si può inventare un lavoro, guadagnarsi il pane, far fruttare un talento. Papa Francesco ha usato l’immagine del campo strappandola allo sport. Non il campo da gara, però, ma il campo d’allenamento: “Che cosa fa un giocatore quando è convocato a far parte di una squadra? – si domandava papa Francesco nella veglia di Copacabana – Deve allenarsi, e allenarsi molto!” Dio a me ha dato un campo, a te un altro campo, ad ognuno il suo campo: cioè un pezzo di terra nel quale giocarsi la propria vita. Eppure senza allenamento anche il più talentuoso dei campioni rimane una schiappa. Ma sopratutto – pensa l’inimmaginabile osare di Dio – in questo spazio di terra Dio t’incontra. Come in quel lontano mattino sulle sponde del Lago: quel giorno c’era un gruppo di persone, nemmeno tutte troppo giovani, alcuni erano anche padri di famiglia. Passa Gesù che li aveva notati tante volte immersi nei loro lavori, nei loro pensieri, abbarbicati alla loro terra, o meglio al loro lago e alle loro abitudini, li guarda e li chiama. Li toglie dal torpore, li lancia su un futuro diverso: “Andrea non stare a raschiare questo lago con le tue reti tutta la vita, vuoi buttarti nella avventura del Regno di Dio? Guarda che non sarà una vita facile, ma io ti sosterrò. Ti interessa?” Accese in loro il desiderio di una vita piena, traboccante, perfino esagerata rispetto ai loro sogni. E cosa fecero? Andarono e videro dove abitava: cioè si misero in gioco, accettarono di rischiare, Gli diedero credito. E la gioia di quella scoperta fu così dirompente che scatenò un tam tam che non si è più fermato. Andrea lo dice a Pietro, lo viene a sapere Natanaele, la voce corre per tutta la Palestina e correrà per tutto il mondo senza mai fermarsi. Da allora molti uomini e donne hanno sentito questo invito testimoniato e lo hanno seguito. Si sono allenati all’imprevedibilità del loro Maestro. Prendine uno, forse il più capestro e infedele: Simone/Pietro. Lui Gesù lo aveva incontrato su invito del fratello Andrea: “Abbiamo trovato il Messia. Vieni a conoscerlo”. Lui ci va. Perché non è uno – come tanti, come troppi, forse come noi – che si accontenta di quello che ha: la barca, il lavoro, la famiglia, gli amici. Vuole di più! Gesù, dopo averlo fissato con i suoi occhi pungenti, lo sorprende, lo anticipa, lo spiazza: “Simone, tu ti chiamerai Pietro”. Pietro, da pietra, da roccia: qualcosa di solido, di robusto, di stabile. Simone, dentro di se’, deve essersi fatta una risata amara. Si conosceva. Sapeva di avere tante qualità, ma non quella di essere roccia. Gli amici, la moglie, la suocera gliel’avevano cantato in tutte le salse: “Ti entusiasmi subito, ma ti sgonfi in un lampo”. Adesso questo Gesù, che lo vede per la prima volta, gli dice: “Ti chiamerai Pietro”. Cederà, ma Gesù non l’ha mai svergognato. E lui, per ripagare non si fermerà. Nonostante le bastonate, la prigionia, la persecuzione. Ormai è una roccia. Gesù, puntando sui suoi pregi e non sui difetti l’ha trasformato!
Anche Simone, come don Marco, forse da Gesù cercava delle risposte. E, invece, è rincasato con il doppio delle domande. Perché nella Sacra Scrittura funziona sempre così: quando la storia sta per arrestarsi, il Cielo lancia una domanda: “Adamo, dove sei? Che cercate? Che ho a che fare con te, o donna? Pietro, mi ami tu più di costoro? Dove andremo a comperare cibo per tutta questa gente? Volete andarvene anche voi? Vuoi guarire? Donna, perché piangi? Figlioli, non avete nulla da mangiare?”. E’ incredibile la voglia di rischiare di Dio: piuttosto che darti il pesce t’insegna a pescare, piuttosto che riempirti di grano ti fa dono di un campo, piuttosto che inventarsi una vita chiede ospitalità al grembo di una donna. Insomma, è un vero allenatore, uno di quelli che sanno allenare i fuoriclasse genetici, la specie più difficile da lavorare: gettare loro delle risposte che interroghino le loro presunte certezze. “Che cosa vuoi che faccia, che cosa vuoi della mia vita? Questo è allenarsi – dice papa Francesco – Domandate a Gesù, parlate con Gesù. E se commettete un errore nella vita, se fate uno scivolone, se fate qualcosa che è male, non abbiate paura. Gesù, guarda quello che ho fatto! Che cosa devo fare adesso? Però parlate sempre con Gesù, nel bene e nel male, quando fate una cosa buona e quando fate una cosa cattiva. Non abbiate paura di Lui!”
Davvero, non abbiate paura di Lui. “Voi siete”, ragazzi: è l’inatteso di una scoperta. Ma c’è di più: c’è un campo che siete voi e che avete voi. Per giocarvi una vita da protagonisti e non da semplici spettatori.
3. “Di Dio”. Il genitivo che fa la differenza.
Il presente del verbo essere (“Voi siete”) e la ricchezza di una possibilità da giocarsi (“siete il campo”). Sopratutto, però, è quel genitivo che fa la differenza: “voi siete il campo di Dio”. Cioè siete di qualcuno, appartenete a qualcuno, c’è qualcuno che si prende cura di voi. La vostra storia non è una stra-maledetta cosa dopo l’altra ma la proiezione di un amore che viaggia all’infinito. Immagina la scena: nel mezzo di una folla caotica – alla stazione dei treni di Bagheria, alla fermata dell’autobus a Politeama, nel terminal dell’aeroporto “Falcone e Borsellino” – una voce grida il tuo nome: non è un fischio al quale si voltano quasi tutti, non è nemmeno un codice segreto che fa sussultare una parte della folla. No, è il tuo nome ad essere gridato. E lo capisci dall’emozione che ti procura, da quel batticuore che ti sposta persino la maglietta: fino a quel giorno, magari, nessuno aveva mai pensato a te. Stavolta, invece, quella voce ti punta, ti illumina, si fa spazio tra la folla per farti sentire importante. Vedete, cari ragazzi, il cristianesimo narra la splendida possibilità di “avere una storia con Dio”. Si, proprio come dicono gli adolescenti: “ho una storia con Valentina, ho una storia con Luca”, e nel mentre te lo raccontano è come se il loro cuore si affacciasse nello sguardo, che il Cielo avesse trovato posto nei loro occhi, che tutto il mondo fosse sospeso a quel batticuore. “Ho una storia con Dio”, e questa storia vive delle stesse dinamiche delle storie d’amore, con i suoi alti e bassi, con le gioie e i trasalimenti, con i periodi di mestizia e quelli di ardore. E’ una storia d’amore nella quale Dio non chiede di cancellare le passioni ma di farle sbocciare in pienezza. C’è un passaggio del Nuovo Testamento che ogni volta che lo leggo mi si stringe il cuore: “Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso (…) divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-7). Cioè non fece pesare la sua discendenza, il fatto di essere davvero “Figlio di Papà”, non mise in imbarazzo la gente semplice: ma si fece come loro. La sua voglia di raccontarsi fu spinta da un sogno: creare confidenza con l’uomo. E il cristianesimo è tutto qui: l’uomo che tenta di rispondere all’eterno corteggiamento di Dio. Come nelle più quotidiane storie d’amore. Nasce qui la splendida e inaspettata espressione tratteggiata da papa Francesco nel santuario della Madonna di Aparecida: “lasciatevi sorprendere da Dio”. Un Papa che parla di Dio come di una sorpresa è un Papa che ha ben presente che il cristianesimo nasce da un incontro, quello col Risorto. Che per lui rimane un’eterna sorpresa. Nella sua duplice sfaccettatura: “mi hai sorpreso!”, perché se è vero che il cristianesimo nasce da un incontro, è altrettanto vero che di quell’incontro non abbiamo noi l’iniziativa e non è programmabile: irrompe quando meno te l’aspetti. Ed è sorpresa pure nell’altro senso: “mi hai fatto una sorpresa!” perché il manifestarsi di Dio rimane sempre qualcosa che eccede le aspettative dell’uomo. Ecco perché di fronte alla sorpresa di Dio il cristiano non può avere “la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo”. La faccia triste, funerea, abituata. La faccia spenta di chi non si è mai innamorato una volta sola in vita sua.
Lasciarsi sorprendere, come in quel mattino in cui Cristo, fino ad allora sconosciuto, rischiò il tutto per tutto: rischiò persino di prendere in giro un gruppetto di pescatori incavolati con la pesca. Ricordate? Pietro e i suoi soci hanno lavorato tutta la notte, ma invano. Non hanno preso neanche un pesce. Gesù dice loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca”. Pietro fece notare a Gesù che non aveva voglia di risalire sulla barca, andare al largo, con il sole a picco sul mare per non prendere niente. Era anche stanco: l’ultima cosa che avrebbe voluto era quella di farsi prendere in giro da un uomo di passaggio. Tuttavia rispose con fermezza: “Sulla tua parola getterò la rete”. In altre parole Pietro dice: “Secondo me tu sbagli, non c’è pesce ma io vado contro la mia ragione, mi fido di te. Sulla tua parola getto la mia vita”. Morirà crocifisso a testa in giù: nel nome di quell’Uomo che lo aveva allenato a diventare uomo. Uomo capace di fare spazio alle sorprese di Dio.
4. Conclusione: “Voi siete (il campo) di Dio”
Prima che suoni la campanella e ci alziamo per consegnare il compito di grammatica, non ci resta che unire le parole, quasi che la frase fosse un puzzle e la scuola un bellissimo gioco da bambini: “Voi siete il campo di Dio”. Ne esce quasi una dichiarazione d’amore, come quando ad una donna le si dice: “sei splendida come una rosa”. O ad un uomo: “mi fai venire i brividi da quanto sei bello”. Perché il cristianesimo è tutto qui: sapere che sei di qualcuno, che sei di Dio. Di Dio e di nessun altro, per cortesia. Provo a dirti la differenza tra essere di Dio e essere degli uomini? E’ come per il solletico, quando ti faccio il solletico tu ridi a crepapelle, sghignazzi senza misura ma quando poi smetto il tuo riso si ferma subito, e magari sei anche un po’ stanco, senza fiato. E’ diverso dalla gioia, vero? Quella rimane dentro anche se smetto di solleticarti il pancino: la differenza è questa, il nostro essere di Cristo non è solo far divertire la gente, che all’inizio va bene ma alla fine la lascia solo stanca, è un donare la nostra presenza, il nostro amore. Alla fine non resterà il fiatone ma il ricordo di una presenza che li ha amati.
E allora andate e camminate, ragazzi/e: fate spazio a Dio e lasciatevi sorprendere dalla vita, parlate a tutti della vostra storia con Dio e cantate l’amore, metteteci la faccia nelle cose e non abbiate paura di sbagliare. Sognate in grande ma sappiate gustare il piccolo. Le piccole cose della vita di tutti i giorni. Vi lascio in dono una splendida pagina scritta da Etty Hillesum. Non è stata scelta a caso: gli avvenimenti di questi giorni – il 70° anniversario del rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma e la morte di uno dei nazisti più tristemente noti – ci ha mostrato in presa diretta cosa succede quando l’uomo decide di non appartenere più a Dio, ma di diventare lui stesso Dio. Eppure anche dentro la catastrofe più disumanizzante, Dio non si arrende. Risponde con la forza del bene. Con la storia di questa ragazza, Etty. Di lei ci è giunto solo il diario: tutto il resto è rimasto sepolto nei pressi di Auschwitz, cittadina divenuta tristemente famosa negli anni Cinquanta del secolo scorso. Era figlia di una famiglia della borghesia intellettuale ebrea, vi morì nel novembre del 1943. Nella prima parte del suo diario, il lettore s’imbatte in una sua splendida riflessione: “è tutto un mondo che va in pezzi. Ma il mondo continuerà ad andare avanti e per ora andò avanti anch’io. Restiamo senz’altro un po’ impoveriti, ma io mi sento ancora così ricca, che questo vuoto non m’è entrato ancora dentro. Però dobbiamo tenerci in contatto col mondo attuale e dobbiamo trovarci un posto in questa realtà; non si può vivere solo con le verità eterne: così rischieremmo di fare la politica degli struzzi. Vivere pienamente, verso l’esterno come verso l’interno, non sacrificare nulla della realtà esterna a beneficio di quella interna e viceversa: considera tutto ciò come un bel compito per te stessa(E. Hillesum, Diario, Adelphi, 98-99).
Tradotto: non restiamo alla finestra, ragazzi/e! Come dice Francesco: “per favore, non mettetevi nella coda della storia (…) non guardate dal balcone la vita, immergetevi in essa come ha fatto Gesù”.
Perché quando tutto è buio, rimangono due possibilità: o maledire l’oscurità oppure accendere un fiammifero. A me la seconda piace davvero.
Guarda la fotogallery del Convegno Regionale RnS Giovani a cura di Rosa Maria Scuderi. Quelle nel post sono dell’amico Sebastiano Corso di Misilmeri.