Come un incubo della peggior specie. Perchè quando lo sport perde la sua aurea di divertimento, ciò che per natura contribuirebbe ad essere una sana forma di educazione diviene in un battibaleno un’angoscia insostenibile. Sopratutto se ad allenare i figli sono quei padri cresciuti inseguendo nel figlio l’ombra delle loro vecchie aspirazioni mai raggiunte: i sogni, come le colpe, sembrano da qualche parte riversarsi di padre in figlio, di generazione in generazione. E’ la storia di un padre di Treviso, denunciato perchè assillava il suo ragazzo di 14 anni con diete ed allenamenti massacranti, nonché costringendolo ad assumere integratori non alla portata della sua giovane età. Lo sport per tantissimi giovani è una forma di emancipazione, quasi di riscatto rispetto a tanti clichè che vengono loro addossati: nella pratica di una disciplina sportiva sovente trovano quegli strumenti che permettono un anticipo di sano protagonismo nella loro giovane età. Perchè praticare uno sport è misurarsi con se stessi, individuare un limite combattendo il quale si allena il corpo e si tempra lo spirito, confrontarsi con chi è più forte di te per essere stimolato a dare il meglio di te. E’ l’occasione bella per pescare sin nel fondo del barile e raschiare tutto ciò che è nelle tue possibilità; per poi scoprire che vincere non è solo arrivare primi ma sopratutto terminare una competizione sentendo che hai dato tutto quello che era nelle tue possibilità. E’ scoprire che ci sono un sacco di cose belle che la vita ti riserba se solo hai la forza di oltrepassare il limite della stanchezza.
La passione per lo sport condivide tutto ciò che appartiene alle cose fragili dell’esistenza: Forzarne la traiettoria significa spesso fare deragliare il treno della passione, infrangere il cristallo di una storia, spostare il confine dal sogno all’angoscia. E’ togliere la possibilità di sbagliare, incutere nell’animo di un giovane l’ansia della prestazione, rispondere alla sua voglia di divertirsi con l’esigenza di essere già avvezzo alla serietà dei grandi campioni. Ci sono storie splendide di talenti caduti in frantumi per troppa fretta; ci sono storie d’emarginazione commoventi salite alla ribalta dell’epica sportiva perchè libere di rispettare i tempi di maturazione, del fisico e dell’anima. Perchè lasciare ad un sogno nascosto il tempo di diventare un segno evidente è permettergli di fare esperienza della lezione più salutare che lo sport conosca: la quotidianità della sconfitta. Andre Agassi, uno dei più grandi campioni di tennis di tutti i tempi, era figlio di un padre ossessivo e brutale che lo voleva a tutti i costi numero uno al mondo. Nella sua autobiografia – manuale splendido di cosa lo sport sia e possa diventare, nel bene e nel male – sintetizza la sua esperienza di sportivo con una frase che somiglia ad una gemma dell’educazione sportiva: “non priverei mai nessuno dell’esperienza istruttiva di perdere”. Detto da chi è diventato numero uno al mondo con addosso l’amarezza di non essere sempre riuscito a divertirsi nel raggiungere quella frontiera.
La volontà di soffrire, però, non può essere insegnata: o la possiedi come dote o non la possiedi. Puoi lavorare affinchè un diamante grezzo un giorno possa brillare: per farlo, però, occorre lavorare non solo sul fisico ma sopratutto nell’anima di un atleta, di un giovane qualsiasi. Perchè l’uomo, a qualsiasi campo appartenga, è capace di sopportare le più disumane fatiche e le più insormontabili meschinità: a patto di avvertire che dentro il tutto abita un senso che sorpassa ogni avversità. Quale che sia la tua vita, sceglierla da te cambia tutto, fino a fare di una disciplina sportiva magari sconosciuta la più splendida tra le ragioni di vita. Perchè capace di farti divertire rendendoti più uomo.
(da Il Mattino di Padova, 20 ottobre 2013)