Come successe ai piedi del Vesuvio, nella città di Ercolano e di Pompei, in quel lontano 79 d.C, dove la grande eruzione cancellò quelle due città: oggi, a coloro che ammirano i resti fossili di quella civiltà, è possibile scrutare ossa di braccia strette tra di loro. Anche in quel giorno, percependo ormai l’imminenza della morte, si decise di morire abbracciati. Come nella terra d’Abruzzo dopo l’ultimo terremoto: chi scavò sotto le macerie trovò tavole ancora imbandite, vestititi per la festa e zaini di bambini pronti per la scuola. Rinvennero fermagli di vecchie donne, vecchi cimeli di guerra, aromi e spezie. Chi quel giorno scavò ad oltranza liberò dalle macerie una coppia di anziani: anche quel giorno li scoprirono abbracciati e anche quella notte la morte non riuscì ad avere la meglio sulla vita. Si morì abbracciati: forse che la morte fa meno paura quando la si affronta con le leggi dell’amore, quello della “gioia e del dolore, della salute e della malattia”. Come nei fondali di Lampedusa, a due passi dall’Isola dei Conigli: uno dei primi sub che ha aperto i soccorsi, uomo arso dal sole e avvezzo alla grammatica del mare, racconta di corpi abbracciati incastrati persino sotto la barca: anche lì, come a Pompei e in Abruzzo, in punto di morte venne spontaneo abbracciarsi per esalare l’ultimo respiro, il testamento di una vita che s’immaginava forse diversa. I vulcani eruttano, la terra trema, le frontiere si screpolano e in certi giorni la morte avanza a passi da gigante: ma nulla può contro l’amore, questo disperato grido del cuore che regge l’urto dello spazio, delle accelerazioni, degli smottamenti. Delle vergogne umane.
Erano partiti in cerca di fortuna, vittime fino all’ultimo di una tratta umana che sembra non conoscere tregua: partiti con l’intento di approdare ad altre spiagge, forse meno malinconiche di quelle africane appena abbandonate. Partiti e fatti partire con tante fantasie tratteggiate nella mente: quelle fantasie che, aumentate a dismisura dal carnefice, finiscono per diventare illusioni più che prospettive di una vita migliore. Fantasticare è un passatempo piacevole fino a quando la fantasia non diviene un mare che ingoia le speranze di intere nazioni. Erano partiti come nei giorni di festa: oltrechè abbracciati, li hanno trovati con addosso le vesti colorate delle grandi occasioni. Nelle loro tasche i soccorritori hanno rinvenuto le tracce del loro mondo, reliquie di una terra e di una memoria che percepivano forse di non abbracciare mai più: un pugno di terra raccolto sulla riva, l’anello della persona amata, la chiave di una porta, una patata strappata dalla cucina della madre. Forse un pezzo di pane arabo, la penna senza inchiostro usata da una bambina, un legno appuntito appartenuto a chissà chi. Il pezzo di ferro di una vecchia croce. Sono morti ognuno con la propria merce addosso, ognuno custodendo le reliquie della propria storia.
L’unica cura contro la morte sembra essere il tentativo di una nuova nascita: forse è per questo che si muore abbracciati e vestiti a festa anche a cinquanta metri sotto l’acqua, dove nessuno ti vede e si complimenta con le mode del momento. Non c’è vanità, non c’è ambizione, non c’è civetteria: sono semplicemente riti di una vecchia liturgia che si ripete sin dalle origini del mondo, quella di intraprendere ogni nuovo viaggio convinti che quella rotta, in realtà, ti porterà sempre e solo a casa tua. Le onde sbattono sulle rocce, i barconi si screpolano per la salsedine, i trafficanti ti spingono dentro la gola del mare: eppure, nonostante tutto, a tenere accesa la speranza è quel piccolo angolo di mondo chiamato “casa”. La cui presenza ti viene ricordata da piccole reliquie che porti con te e da quella voglia di un abbraccio che ti coglie quando l’acqua arriva alla gola. E tu tenti di vincerla con la forza di un abbraccio.
(da Il Mattino di Padova, 6 ottobre 2013)
* Una lettera che vale la pena di leggere: “Chi ride dei morti di Lampedusa non può governare” (di Madalain Mady Chereches)