Abacuc: l’imbarazzo di un nome, sillabe che racchiudono un mistero. Un progetto. “Chi era costui” sarà lecito a qualcuno chiedersi imitando il vecchio curato di manzoniana memoria (liturgia della XXVII^ domenica del tempo ordinario). Abacuc era un uomo come mille altri uomini: un pugno di fango reso vivente da un soffio divino. Nome un po’ strano, forse un po’ bizzarro: le poche volte che lo incontriamo sorridiamo. Un uomo smarrito, impotente, incazzato col mondo. Sulla scia di tutti i profeti dell’Antica Alleanza. Di più: incazzato con il suo Dio! Perché lo spettacolo quotidiano era disgustoso. E perché di questo disgusto Dio sembrava fregarsene. Ai suoi tempi gli uomini si scannano con ferocia, l’ingiustizia raggiunge livelli atroci, si rapina il mondo, il debole è interrato (altro che innalzato come disse Maria), Caino sembra impazzire con suo fratello. Il creato, splendido giardino appoggiato nelle mani creative dell’uomo, sembra diventato una landa di ululati solitari. Storie di “balbettanti bamboccioni babbuini” – come direbbe Harry Potter. E Lui? Lui semplicemente lascia fare. Sembra distratto, indifferente. Sembra un Dio menefreghista. E Abacuc non ci sta. Lui, profeta costretto ad urlare parole di fuoco che nessuno voleva sentir dire, guarda in faccia Dio, il suo Dio, colui che l’ha mandato allo sbaraglio di fronte al palcoscenico della storia e sembra dirGli: “Dio, come la mettiamo? Io, Abacuc, protesto…” Lo guardi esterefatto, t’innamori di questo piccolissimo uomo che osa puntare il dito contro Dio, prendi paura perché non scherza. Per poi scoprire che Abacuc sono io, don Marco. Forse sei tu. Abacuc siamo noi. Siamo noi quando sgraniamo gli occhi stupiti e sbalorditi, frastornati e increduli, indignati e scandalizzati per la sporcizia del mondo. Ma pensa te: son passati 2700 anni e scopri che l’uomo è rimasto lo stesso: una vecchia anticaglia arrugginita che fatica a camminare. Aveva ragione De Andrè quando, a proposito di un vecchio professore alla ricerca del piacere, annotava: “Diecimila lire/ per sentirti dire/ micio bello/ e bamboccione”.
Dio e il suo profeta: uno splendore di attesa, di strategia morosa, di follia incantevole. Dio ascolta lo sfogo di quell’uomo. Lo ascolta, lo interpreta, ne fa tesoro perché Dio s’innamora dell’uomo quand’è libero. Libero di sfogarsi e ringraziare, di stupirsi e vergognarsi, di camminare e cadere, di credere o bestemmiare. Dio aspetta. Poi fa prendere ad Abacuc carta, penna e calamaio:”Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente”. Ah! Allora Dio c’aveva in testa qualcosa, non se ne stava indifferente, sentiva l’urlo montare nella gola di quell’uomo. Ed è anche preciso Dio: parla di un termine, di una scadenza. Sì, perché su questo palcoscenico che noi chiamiamo vita un giorno calerà il sipario, il regista riguarderà le scene, sarà emesso un verdetto. Il quando non è dato sapere: basta aver appreso che succederà. E’ Parola di Dio: cioè Dio mette se stesso come garanzia, come assicurazione alla sua parola. Dio mette in gioco se stesso per costringere l’uomo a mettersi in gioco!
Ci sono uomini fiacchi, incapaci di superarsi. Di una felicità mediocre fanno la loro felicità, dopo aver soffocato la parte migliore di sé. Essi si fermano in una locanda per tutta la vita. Si coprono d’infami. Non m’importa di ciò che fanno costoro, non m’importa se vivono. Essi chiamano felicità il marcire sulle loro misere provviste. Rifiutano di avere dei nemici all’infuori di sé e dentro di sé
(Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella)
Una data come consegna. Che ti fa leggere la storia in modo inatteso: “Se aveste fede quanto un granellino di senape, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe”. Vuoi far ridere Dio? ParlaGli dei tuoi sogni. Vuoi vederlo nervoso? DiGli che non c’è niente da fare. FaGli capire che la realtà è quella che è, la realtà non cambia. Non è mai cambiata. “Se aveste fede…”. Cioè la realtà è quello che è perché la nostra fede è quello che è, cioè non è fede. Se oggi ti tuffi nel Vangelo, rischi di spararti. Perché fai una scoperta amara: se hai fede c’è tutto da fare. Tutto resta sempre da fare. Tutto è possibile. Tutto: anche sradicare un gelso dalle radici impantanate nelle profondità del suolo. Anche spostare una montagna gigantesca. Anche cambiare te stesso. Il gelso sta lì in mezzo non per sederci attorno con vestaglia e pantofole, sonniferi e telecomando, diuretici e dimagranti. Il gelso sta lì perché non siamo riusciti a toglierlo. Sta lì perché protestiamo ma non cambiamo. Giochiamo con le parole ma sono senza potenza, ne abbiam rapito la tenerezza. Ci sentiamo dei giganti ma la nostra povera storia di uomini ci dipinge come dei nani. E’ la stessa esortazione che fa Paolo di Tarso scrivendo all’amico Timoteo e ricordandogli che Dio ci ha dato uno spirito da guerrieri, da avventurieri. Gli ricorda che noi siamo gente creata per lanciarsi all’avventura del mondo. Sporcarsi le mani è comandamento diretto di Dio sceso dalle righe prime del Vecchio Patto: nessuna dispensa autorizzata. Perché il gelso va sradicato, il male va smascherato. Il mondo va aiutato a risorgere quotidianamente. Non basta custodire: è necessario costruire, elevare, innalzare. E’ necessario sconvolgere il mondo!
Robe da matti, don Marco! – direbbe la mia cuginetta sorridente. Sono proprio robe da matti: aspetto i miracoli dal Signore. Ne sono ghiotto: amo collezionarli come un appassionato di filatelica i francobolli. Ma mi dimentico che i miracoli li compiva quando vedeva la fede. Io, invece, aspetto il miracolo per aver fede. E il mio cammino non s’incrocia mai. Le spalle si guardano, gli occhi si ignorano. E pensare che tutto il Vangelo è dimostrazione della debolezza di Dio di fronte alla fede. Ma io nego al Signore questa gioia. Perché non ho fede. Sono colpevole di aver rifiutato un po’ di gioia al Signore a motivo della mia poca fede. Insomma: è bastato un gelso sul mio cammino per incassare una pesante bocciatura. L’ennesima.