“Allora, un po’ mi conosci! Non dico tutta, perché tutta non mi conosco neanch’io!”. Parole semplici immediate, efficaci. Mi colpirono all’istante, come un dardo. Si trattava di una piccola, grande, innegabile e, in parte – se vogliamo –, inquietante verità: pur essendo la persona che frequentiamo, per amore o per forza, per più tempo da quando veniamo al mondo, non ci conosceremo mai totalmente.
Credo si tratti di una realtà di fatto inoppugnabile e opporvi resistenza si rivelerebbe unicamente fuori luogo ed infantile. Ci sono cose che sono e basta, il contrastrarle pervicacemente non denota maturità, solo testardaggine. E questa rientra pienamente in tale categoria.
Dal momento in cui una persona nasce, dovrà fare quotidianamente i conti con se stessa: ogni giorno che verrà, dovrà imparare a conoscersi sempre di più, pur facendo la continua esperienza di come non riesca mai (completamente) a “contenere” il proprio sé. Qualcosa sfugge. Fuoriesce, straborda. Come e perché, è difficile stabilirlo; ma che ciò avvenga è impossibiled negarlo.
Una sensibilità che stupisce. Una resistenza che non pensavamo parte di noi. Un cinismo che sboccia, inatteso, di fronte ad immagini che ormai invadono le giornate: l’abitudine ha preso il sopravvento, chiudendo la porta del cuore. Per quanto uno possa avere ambizione personale e autostima, vi saranno sempre lati “oscuri” (nel bene e nel male) che riusciranno a stupirci.
Ecco quindi che risulta evidente come persino a noi stessi, nostri compagni permanenti, rimaniamo – almeno in parte – estranei. Come illudersi – quindi – che mamma, papà, figli, insegnanti, amici, mogli o mariti ci comprendano? Siamo noi i primi a “perderci di vista”, a rimanere confusi, a non essere in grado di delimitare i nostri confini, quelli che dovrebbero essere in grado di descriverci.
Come valutare, del resto, la somma illusione di affermare di conoscere qualcun altro, a questo punto? Visto sotto quest’ottica, assumono tutt’altro significato le parole di mogli che affermano, dopo aver scoperto qualcosa di diverso (spesso, drammaticamente) da quanto da loro conosciuto nei riguardi dei propri mariti: “Io non lo conoscevo; ho sposato un estraneo”. Si tratta di una scoperta dolorosa, in questa circostanza. Sono – me lo auguro! – in sostanza dei casi-limiti, naturalmente: ma, spesso, sono le estremizzazioni che, nel loro essere “eccessive”, aiutano a comprendere meglio il nocciolo di tante questioni.
Se ciascuno si guarda indietro, nessuno può negare di ricordare occasioni e situazioni in cui, alternativamente, ha potuto toccare con mano il non poter trovare a sé o all’altro. Forse questo è considerato un passo più lungo della gamba, ma a me pare che possa essere ritenuto l’appiglio ragionevole per intuire il mistero dell’umano. Se siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, non credo sia da ricercare una somiglianza fisiognomica. La fisionomia umana dipende troppo dall’adattamento all’ambiente (naso ampio e pelle scura per chi abita al caldo, naso sottile e pelle chiara per chi abita al freddo, tanto per citare qualche semplice dettaglio esemplificativo) perché si possa pensare che in quello risieda il divino lascito consegnato alla creatura umana.
Frammenti di Dio si rivelano nel libero arbitrio e nella capacità di bene gratuito, nella ricerca della felicità e nell’ineluttabilità di alzare lo sguardo, allargandolo oltre l’attimo presente del soddisfacimento dei propri primari bisogni fisici e naturali.
Questo sguardo che s’alza oltre ciò che è tangibile e percettibile penso sia segnale dell’apparteneza a una realtà che ci supera. Noi stesso siamo infinito.
Lo so, forse è ambizioso affermarlo. Ma che altro si può pensare quando ci si rende conto che la prima cosa che sfugge alla nostra totale conoscenza, prima ancora della natura (o Natura) e di quel che ci circonda, è proprio ciò che ci dovrebbe contenere: noi stessi? Noi stessi siamo invece i primi a sfuggirci e a oltrepassarci in un ossimoro che, esaltando il paradosso umano, ci mostra (almeno in controluce) lo splendore indicibile della nostra dignità.