Il loro volto è dappertutto: nelle sale parto delle maternità come nelle squattrinate strade della perdizione; nelle cerimonie dei giorni di festa e nelle nenie malinconiche dei giorni del lutto; davanti alle stanze nuziali come in fronte alle sbarre delle patrie galere. Quella delle mamme è una presenza imbarazzante: prestano il loro grembo per far nascere la vita, coprono gli spazi che gli uomini abbandonano, si vestono di luce per illuminare le tenebre: sanno reggere quando tutt’intorno la terra trema. La loro è una forza misteriosa, inenarrabile, quasi divina: ci vuol fegato per strappare la vita alle fauci tremende delle tante morti che quotidianamente l’attanagliano. Eppure loro non mollano mai: bussano, ricominciano, insistono, si sgolano, cercano a tentoni e bisbigliano fin quasi a perdere la voce e prosciugare le lacrime. Hanno fascino e avvenenza, gaudio e spensieratezza, giovialità ed entusiasmo da vendere. Ma hanno pochissima memoria: dimenticano facilmente, sopratutto i lutti e le cadute dei loro amori. Un “difetto di fabbrica” che è rimasto il loro marchio più rassicurante: dimenticando facilmente, altrettanto facilmente ricominciano daccapo. Come delle amanti smemorate e delle seduttrici incallite.
Questa settimana avrei voluto essere mamma per assaporare le dolci parole di un Papa sorprendente. Le ha tirate fuori dal dimenticatoio della storia, ne ha tessuto dolci parole, le ha portate al centro. E dopo averne contemplato la radiosità dello sguardo, si è lasciato andare a celebrare la loro faccia: “essere mamma – ha detto mercoledì scorso Francesco – significa metterci la faccia per i propri figli”. E poi è andato a cercare sopratutto loro, quelle povere donne accovacciate davanti alle sbarre delle carceri cantandone l’azzardo della loro presenza: “penso alle mamme che soffrono per i figli in carcere o in situazioni difficili: non si domandano se siano colpevoli o no, continuano ad amarli e spesso subiscono umiliazioni, ma non hanno paura, non smettono di donarsi”. Ci vuol fegato per essere madre ma ci vuole anche tanto fegato per parlare da Papa proprio di quelle donne e additarle come esempio. Tra le vie del paese spesso non sono più solo mamme ma le conoscono come le “mamme del delinquente, dell’assassino, del brigante, del pedofilo, dell’infame”. Le si vorrebbero vestite col lutto della vergogna, rattrappite nel dormitorio pubblico della civiltà, nascoste alla festa del mondo. Invece loro ripartono ogni prima mattina: le vedi barcollanti e appesantite, cariche di anni e pesanti di pensieri, lo sguardo assonnato e le gambe gonfie. Eppure la faccia è sempre la stessa: quella di quel lontano giorno in cui il primo vagito ha riempito d’allegrezza le loro stanze di casa. La loro faccia è uno dei volti più radiosi dell’amore di Dio.
Nella Bibbia le donne ci sono dappertutto, dalla Genesi all’Apocalisse. Nella vita di Cristo regnano ovunque: da Nazareth al Golgota, fino al sepolcro trovato vuoto in quel primo mattino ebraico. Ci sono, ieri come oggi: cambiano gli accenti, mutano i lineamenti, s’alternano le mode del vestire ma la loro faccia rimane sempre a disposizione. Di quei figli, sopratutto, che quella faccia l’hanno tradita, beffeggiata e magari disprezzata ad oltranza. Nulla le può fermare, nemmeno i gesti folli dell’umana disperazione: sono mamme e questo basta loro per ricordarsi che la loro semplice presenza è apportatrice di speranza e di luce. Francesco, anche da Papa, le guarda e sogna una Chiesa così, che sappia metterci la faccia per i figli più discoli. Io, che non sono Papa, ogni mattina guardo quelle mamme appostate fuori dal carcere. Le guardo e di quella faccia avverto gelosia: perchè ci sono giorni della mia vita nei quali “metterci la faccia” è impresa azzardata. Per loro, invece, è ordinaria amministrazione. Chapeau, mamme.
(da Il Mattino di Padova, 22 settembre 2013)