Una delle poche volte che Gesù di Nazareth si lascia andare ad un filo di sconsolazione, tradendo forse un pizzico d’invidia verso quel mondo che nel suo cuore immagina diverso: “i figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (liturgia della XXV^ domenica del tempo ordinario). Che è come confidare a quel manipolo di discepoli che ha scelto e amato: “perchè invece voi non siete così scaltri? Eppure avete Me accanto!” E’ una parabola intricata e intrigante quella di questa domenica: parla di un amministratore, di un padrone e di una mezza truffa in piena regola (immagino le espressioni di qualche mio parrocchiano in carcere, quasi a dire “urca, è la mia storia!”). Per salvarsi il futuro, dal momento che a causa della sua disonestà il padrone lo ha destituito – non senza prima, però, avergli dato la possibilità di una difesa onesta (“Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore”) – , quell’amministratore s’ingegna una furbizia, lodata da Cristo stesso: dimezza ciò che i debitori devono al suo padrone e in tal modo ottiene la loro simpatia. Forse anche il loro riconoscimento che gli potrebbe essere d’aiuto già domattina, quando dovrà rimboccarsi le maniche e andare a cercare un nuovo lavoro per sé. Significa che Dio allora, fuori di parabola, elogia l’inganno e la disonestà?
Figurarsi: un Uomo dalla schiena dritta e dallo sguardo pulito come il Suo non avrebbe mai potuto mettere la faccia (anche Dio ne ha una sola, ndr) per sponsorizzare la Menzogna. Ad essere elogiata invece è la furbizia, l’intraprendenza, l’intuizione di quell’amministratore. Nel tempo antico il guadagno dell’amministratore veniva tolto dal guadagno del padrone: è su quella percentuale – che quindi spetterebbe a lui dopo la riscossione – che l’uomo s’inventa un contropiede da manuale. Quasi a dire: “è vero, ho sbagliato. Rinuncio alla parte che mi spetterebbe di diritto e, così facendo, alleggerisco la somma dei debitori. Chissà mai!” E in questo sta la sua grandezza: rinunciare a qualcosa adesso per investire nel suo futuro. Forse ancora di più: rinunciare a qualcosa di allettante come il denaro (o i barili d’olio) rischiando di investirli in affetti e legami, in amicizia e prossimità, in umanità e speranza. Quello che – stando all’amarezza dell’espressione di Gesù – non sembrano ancora capaci di fare i suoi amici/discepoli: rischiare la sicurezza di una piccola schiavitù per assaporare il rischio della vera libertà, quella che rallegra il cuore dell’uomo e della storia. Più che moralista – nessuna pagina del Vangelo racconta di un Gesù stile “predicatore di morale” – è un Gesù dallo sguardo sveglio, capace di cogliere negli atteggiamenti profani e pagani quel frammento di bellezza e di autenticità che tanto fervore arrecherebbe anche alla sua piccola chiesa che sta facendo nascere. Così quell’amministratore da figura perfida e delinquenziale diventa metro di misura: perchè lui, pur essendosi complicato la vita con il denaro, riesce a trovare un qualcosa che supera di gran lunga quel valore, a lungo immaginato come insuperabile: non accetta di rimanere suo schiavo, corre il rischio di barattarlo in legami e affetti.
«Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”». E ripete: «io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me».
Il motto di Papa Francesco è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vide Gesù un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi».
E aggiunge: «il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».
Papa Francesco continua nella sua riflessione e mi dice, facendo un salto di cui sul momento non comprendo il senso: «Io non conosco Roma. Conosco poche cose. Tra queste Santa Maria Maggiore: ci andavo sempre». Rido e gli dico: «lo abbiamo capito tutti molto bene, Santo Padre!». «Ecco, sì — prosegue il Papa —, conosco Santa Maria Maggiore, San Pietro… ma venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi.
«Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No, questi soldi sono miei!”. Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a Pontefice». Quindi sussurra: «Peccator sum, sed super misericordia et infinita patientia Domini nostri Jesu Christi confisus et in spiritu penitentiae accepto».
(Antonio Spadaro e Papa Francesco, La Civiltà Cattolica)
Non perde occasione il Maestro per additare ai suoi amici il di più che è sempre possibile: l’uomo è sempre in uno “stato di parto” dentro le pagine della Scrittura. Di più: è un Dio che sorprende e spiazza, una Presenza che è di strada nelle strade dell’impensato, dell’inimmaginabile. Un Dio la cui irruenza s’incunea dentro le pieghe del cuore e sconquassa quelle certezze che sono false perchè solo presunte. Insomma, un Dio che questa domenica è come se ci consigliasse di staccare lo sguardo dalle mille cose che ce lo rubano per arrischiarci di investire quello sguardo su orizzonti che profumano di novità e di stupore, forse anche di un’autenticità più piena. Con un’aggravante come aggiunta: che anche stavolta l’atteggiamento di un peccatore diviene una lectio difficilis da digerire per quei piccoli genietti che ronzano attorno a Gesù. Peccatori che, colpa Sua, ci ricordano ogni giorno di festa che la strada è ancora lunga da percorrere.