ospedale

Come un ritrattista della freschezza di Dio: di quel Dio narrato da Gesù di Nazareth che abita nelle strade dell’impensato, che sorprende e seduce per quella sua prossimità alla sofferenza che è rimasta il marchio di fabbrica dell’Eterno. Di questa eccedenza che nessuna parola può trattenere e nessuna penna tratteggiare, Papa Francesco si pone nelle vesti di pittore, traendo dal suo bagaglio culturale immagini di una forza possente, sin quasi impertinente, per pennellare i lineamenti di un Dio che sta chiedendo alla Chiesa un surplus di fiducia in Lui, quasi una novella riscoperta del suo essere “segno d’azzardo” nel mondo contemporaneo. Parla del cuore di Dio senza tenere la paura di trafiggere il cuore della storia: e lo fa con le parole dei semplici, con immagini che trasudano della polvere delle periferie, con quell’energia profumata che contraddistingue il popolo degli oppressi. E’ un Papa che “vive” la gente prima di parlare alla gente, fedele all’insegnamento dettato da Ignazio di Loyola il quale, nei suoi Esercizi Spirituali, raccomanda di “vedere le persone presenti” e di “udire quello che dicono”. Quasi che il segreto della spiritualità ignaziana stia in questa furbizia dello sguardo e dell’udito, capace di intercettare i più intimi sussulti del cuore umano: è lo sguardo di Dio. E di Francesco, suo servo.
Ritrae Cristo per immettere sangue fresco nelle vene della sua Chiesa. Dialogando con padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica”, ha sorpreso ancora una volta, l’ennesima, parlando della Chiesa. Se ne è uscito con un’immagine dalla forza dirompente, paragonandola ad un ospedale da campo dopo una battaglia. In un’immagine ha racchiuso la sua duplice consapevolezza di padre: l’oggi è un campo di battaglia, dove la fede lotta contro la non credenza, forse anche contro l’incredulità. In una battaglia c’è chi esce con la corona e chi con le ferite: sono costoro che vorrebbero trovare, sul limitare di quella battaglia, un ospedale da campo. Per guarire l’essenziale, senza il quale non c’è vita: “è inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”. Che è ricordarsi di ricominciare sempre dal basso: prima l’accoglienza e l’annuncio di una salvezza a disposizione, poi la diagnosi dettagliata. Punto e a capo. Che lo dica un Papa è come gridare l’annuncio di quell’inaudito la cui veemenza la Chiesa troppo spesso ha ridimensionato. Per Francesco la Chiesa non è tanto una donna che porta un qualcosa, ma una mamma chiamata ad andare, toccare e sanare perchè è chinandosi sulle sofferenze che riceve come guadagno la stessa Grazia che la rende santa. Toccando e incontrando quel Dio che è sempre “altrove” rispetto all’umano.
Tanti sono i campi di battaglia dell’umano: dalle corsie degli ospedali alle celle delle patrie galere, passando per la confidenza dei confessionali. Abitarli significa fare esperienza di un’umanità sofferente, di esistenze deragliate, di anime inquiete. Chi si lascia trovare in quelle zone di frontiera tiene nel cuore un sogno: quello di poter varcare la soglia di un “ospedale da campo” capace di offrire loro un motivo per continuare a sperare. E questo risulta possibile solo nella misura in cui il popolo di Cristo avrà il coraggio e l’azzardo di stare con le persone laddove esse abitano e non solo dicendo loro dove dovrebbero andare ad abitare, o a ricostruirsi la casa. Perchè nell’“ospedale da campo” immaginato da Cristo, c’è una sola specializzazione da apprendere: in qualunque caos l’uomo o la donna possano abitare, quello sarà sempre il punto di partenza per un possibile ritorno a Lui. A quella casa che anche nel mezzo dell’oscurità più assordante ti fa sentire protetto e custodito. Perchè amato ad oltranza.

(da Il Mattino di Padova, 21 settembre 2013)

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