ditamano

La risposta me l’ha data sabato sera papa Francesco durante la veglia per la pace: “Non è Gesù la patria più bella? Che t’importa dell’esilio se tu possiedi il Cielo?” Voglio, dunque porre fine – dalle colonne amiche di questa testata giornalistica – ad un tormentone mediatico che sta distraendo la mia missione di sacerdote. Lo faccio ricostruendo l’accaduto e spiegandone il senso.
L’accaduto sta in una telefonata: giovedì mi viene chiesta la disponibilità da parte di don Roberto di celebrare questo matrimonio per venire incontro ad una sua difficoltà. Dopo aver capito che il mio impegno non avrebbe tolto tempo ad altre cose più urgenti nella mia missione di sacerdote, offro la mia disponibilità. Solo alla sera giunge una chiamata gentile dalla wedding-planner del matrimonio alla quale confermo la disponibilità e chiedo, con altrettanta gentilezza, una condizione: poter incontrare i due sposi prima del matrimonio, per evitare un duplice rischio: che la celebrazione perda il suo significato religioso e, preoccupazione mia, che il sacerdote non finisca per essere una banale comparsa dentro la sceneggiatura di un film dalla trama già scritta. La risposta non arriva e richiamo nel pomeriggio di venerdì: mi chiameranno entro breve. Nel frattempo il cellulare esplode di chiamate: vogliono sapere cosa dirò nella predica, come vestirò, parlano di don Roberto come dell’Escluso, di me come del Ripescato. La cosa m’infastidisce: non è facile costruire discorsi sul vuoto. Nella serata di sabato, di fronte al silenzio, sento don Roberto e assieme decidiamo: una semplice telefonata tra due amici preti – che si stimano e si vogliono bene – per fare in modo che anche la nostra vita di sacerdoti non diventi uno show. Essere preti giovani non significa automaticamente essere preti disponibili a qualsiasi cosa. Il tutto senza nulla togliere alla scelta d’amore e di stile di questi due ragazzi. Una volta deciso, scrivo dieci righe sul mio sito (www.sullastradadiemmaus.it), preciso la questione ed esco dalla scena. E tale voglio rimanerci.
Una scelta che ha una sua motivazione: quella, da sacerdote, di tenere alta l’idealità di una proposta e della sua delicata simbologia. La celebrazione di un matrimonio (nel suo aspetto di fede) non è l’organizzazione di un evento o di uno show: il prete non “tratta” con gli organizzatori, non parla con i procuratori, non ha “diritti” o esclusive da concedere a giornalisti. E non può nemmeno essere letto con la grammatica dello showbiz fatta di esclusioni e di ripescaggi, di tweet e di rivelazioni. Laddove le notizie rischiano di fare la fine della marmellata: meno ne hai e più la spalmi. Ciò che intriga di quel frangente liturgico è invece quel parlarsi al cuore, quell’imparare a leggere uno sguardo, quella sana complicità con gli sposi che quel giorno t’aiuterà ad addentrarti in un mistero che nessun scoop riuscirà a tradurre: quello di un Dio che irrompe dentro una storia e si dimostra capace di sorprenderla eternamente. Fin quasi a farla inabissare dentro il mistero dell’Amore più vero. Non lo nascondo: mi sarebbe piaciuto poter fare tutto questo con loro. Quando, però, ho avvertito la mancanza delle condizioni, ho preferito tirarmi in disparte: certi “no” difficili alla lunga si dimostrano più fruttuosi di qualche “sì” detto in troppa fretta. Questa mia scelta nulla toglierà a questi due ragazzi. Da parte mia non ho la pretesa di cambiare il mondo e tanto meno di insegnare la vita a nessuno: cerco, non sempre riuscendoci, di fare in modo che un certo tipo di mondo non cambi me.
Augurando a tutti i giovani che nessuno firmi mai la vita al posto loro.

(da Il Mattino di Padova, 10 settembre 2013
      Avvenire, 10 settembre 2013)

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