Simili alle sirene che complicavano il ramingo viaggiare degli antichi eroi; addosso la fragile bellezza che è tipica delle realtà nobili. La montagna è una donna scapigliata: la sua semplice presenza – magari stagliata sull’orizzonte di un tramonto – incute timore e ammirazione, tremore e batticuore, mistero e inquietudine. Forse per quel suo innalzarsi fino a lambire la zona che delimita l’effimero dall’Eterno, la frenesia dalla quiete, il noto dall’ignoto. Della sua bellezza c’è un’intera letteratura ad imperitura memoria: salite ardite e discese mozzafiato, conquiste immortali e bufere da tregenda, bandiere piantate in segno di vittoria e croci rimaste come presenza di un’assenza. Somiglia ad una donna che non ama concedersi a viandanti di passaggio: a chi ne vuole strappare la vetta chiede lunghi corteggiamenti, spasmodiche attese, epiche strategie. Fino all’estremo del gesto atletico, laddove l’estremo non è mai improvvisazione ma ricerca e studio, calcoli e probabilità, pianificazione e applicazione. Umile rispetto di una realtà che non t’appartiene ma al tempo stesso opera una forma di segregazione, ch’è il marchio della Bellezza.
Chi ama la montagna ne conosce l’esigenza, quella specie di ascesi alla quale si è chiamati nel sogno di spostare un limite, di toccare una vetta, di inabissarsi nel mistero. Chi di lei conosce il battito e l’esigenza, le s’accosta quasi in punta di piedi, con la giusta reverenza che s’addice alle cose giganti: sa che, nell’attimo esatto in cui osa sfidarla, da madre potrebbe diventare matrigna. Ne fanno le spese uomini e donne che di lei hanno fatto una ragione di vita, fino a perdere il sonno e tante fortune: le loro morti – che tanto hanno dato alla scienza e all’alpinismo – rimangono le tracce che una madre lascia come segno del suo passaggio, cimeli di una cura amorosa che non è mai sufficiente quando si decide di scalare il Cielo. Sono morti che soffocano nella leggenda, sono corpi che rimangono nel grembo della terra, sono storie che meritano la giusta considerazione nell’epica sportiva: chi nasce scalatore sa che il rischio della morte è il pegno da lasciare all’inizio di ogni viaggio. L’uomo dell’osteria forse irride questa disponibilità a morire per un sogno ma nell’animo di questi uomini è racchiusa una certezza: “una sola cosa è certa – scrisse qualche giorno prima di morire Karl Unterkircher -: chi non vive la montagna, non lo saprà mai! La montagna chiama!”. Certuni avvertono l’urgenza di una risposta da dare a questa interpellanza. E accettano la sfida.
La si può scalare anche con infradito e Ipad, con la leggerezza del turista o la frenesia dell’uomo di città: a costoro la montagna riserva sorprese e amarezze, delusioni e scivolate, rimorsi e risentimenti. Perchè lei rimane una donna esigente: alla minima disattenzione, presenta un conto salato come nelle più intricate storie d’amore. Cosicchè lassù, ad un passo dal Cielo, l’uomo apprende la grammatica del rispetto e l’alfabeto dell’umiltà: ci sono attimi, storie, persone in fronte alle quali un passo indietro oggi è una chance in più domani. Sulla cima di una vetta giace un’ardua possibilità: sfidare la montagna o riconoscerne la superiorità. Chi la sfida a volte non conosce ritorno, chi s’arresta – magari ad un passo dalla cima – trova come accredito la possibilità di un ulteriore tentativo. Simone Moro, presenza umile e orgoglio dell’alpinismo italiano, un giorno disse: “a volte arrendersi ad un passo dalla vetta non è una sconfitta ma un gesto da grandi campioni”. L’umile riconoscimento che, forse, mancava un qualcosa per essere davvero pronti al corteggiamento finale. In ogni storia d’amore il cavaliere conosce i riti della sua principessa: nemmeno la montagna sfugge alle logiche di un amore che non ama l’improvvisazione.
(da Avvenire, 22 agosto 2013)