cucchiaio legno gettyMolti sono i poeti che, in qualunque popolo ed epoca storica, si sono cimentati nella celebrazione delle grandi imprese. Difficile trovare chi abbia invece decantato la sconfitta.
Probabilmente, a prima vista, sembra contraddittorio e persino un po’ autolesionista l’apprezzamento della sconfitta. Del resto, chi cerca la sconfitta? Per quanto ci si dica seguaci del motto di De Coubertin, in fondo, ammettiamolo: nessuno gioca per perdere. Anche quando si gioca per divertirsi, speriamo (in modo più o meno velato) che la vittoria ci sorrida.
Eppure, è inevitabile, nello sport e nella vita, se a qualcuno le cose vanno bene, è perché a qualcun altro in questo momento stanno andando male. Un continuo saliscendi di cui non siamo sempre consapevoli, e che tuttavia è spesso l’ingranaggio che regge il mondo e la nostra società.
Tutti vogliamo vincere. Più ancora, vogliamo essere dei vincenti. Che significa riuscire nella vita, essere soddisfatti ella propria vita e dei risultati conseguiti. Dunque, per quale motivo cercare la sconfitta? Apparentemente, non ce n’è nessuno.

E in effetti, non penso che la sconfitta sia da cercare, nello sport, come nella vita. Ma, quando capita, sfruttarne la ricchezza è saggio e fruttuoso. Ogni sconfitta ha un insegnamento da cogliere; anche se, spesso, ciò è difficile, in quanto mette in discussione il nostro amor proprio e preferiremmo turarci le orecchie, pur di evitare di metterci in discussione. Perdere ci mostra e ci pone innanzi agli occhi il nostro limite, il nostro errore; alle volte, ci fa vedere sbagli che, senza di essa, sarebbero passati inosservati. Ci sono partite che sappiamo, in cuor nostro, di meritare di perdere, in base al gioco espresso in campo. Se però, per un colpo di fortuna o una disattenzione avversaria, ci riesce di vincere ugualmente, è difficile che ci poniamo davvero delle domande. I nostri errori passano sempre in secondo piano, quando si vince.
Perdere evidenzia invece le pecche, i difetti, le disorganizzazioni. Fa risaltare tutto quanto è andato storto e ci induce a riflettere, a pensare. Ci fa pensare e prendere coscienza di chi siamo e cosa vogliamo (quali siano i nostri obiettivi, quali le motivazioni che ci spingono a lottare, fare fatica, impegnare le nostre forze mentali e fisiche, la nostra mente e il nostro cuore): ci porta a definire le nostre priorità, ciò che siamo chiamati a difendere e ciò che ci sta a cuore.
Perdere, specie dopo una serie di risultati positivi, corre il rischio di essere frustrante, umiliante, destabilizzante. Addirittura, potrebbe stordire chi la subisce. Ma comporta una pausa forzata, per progettare un nuovo corso. Ha l’indubbio merito di risvegliare i nostri sensi, talvolta intirizziti, per ricordarci che non siamo nati per vivere “con il pilota automatico”. La vita ci interroga e ci mette alla prova ogni giorno; purtroppo però, quando va tutto bene, non ci poniamo troppe domande e corriamo il rischio di dare troppe cose per scontate, sopendo la gratitudine che dovrebbe abitare ogni essere vivente di fronte ai piccoli e grandi miracoli quotidiani che costellano l’esistenza su questo pianeta (talvolta ‘atomo opaco del male’ a causa del dilagare di violenza ed egoismo, che hanno la loro radice nel cuore dell’uomo offuscato dal Male, ma tanto più spesso motivo di stupore e meraviglia per la Bellezza che ci circonda e la Bontà capace di fiorire persino nei deserti più aridi).
Si dice che la Storia sia maestra di vita. Ogni tanto ne dubito, perché, proprio chi dovrebbe conoscerla meglio di tutti, pare dimenticarla con eccessiva facilità (non so se consapevolmente o inconsapevolmente). Ecco perché proprio la pratica di uno sport può essere forse ancora miglior docente: innanzitutto, perché per molti, lo sport è compagno di vita fin dalla più tenera età; poi, perché rende semplici lezioni che apprese tramite la vita possono essere molto più aspre da recepire. Tutto ciò esplicita la motivazione per la quale è importantissimo che gli istruttori sportivi siano consapevoli del ruolo educativo che essi svolgono nella crescita dei ragazzi e che siano adeguatamente preparati non solo relativamente alla propria disciplina ma anche perché possano ricoprire correttamente un compito educativo che riveste spesso una dimensione decisiva nel percorso di maturazione dei più giovani.
L’esperienza ci racconta che una sconfitta ci è spesso indispensabile per poter capire insegnamenti che ci sono necessari, ma su cui non ci soffermeremmo senza che una scottatura bruciante del nostro amor proprio non ci spinga a mettere in discussione il nostro comportamento ‘di default’. Eppure, la contraddizione è nel fatto che, nonostante ci rendiamo conto di questo, nuovamente il nostro amor proprio rende difficile dare merito ad essa della nostra crescita umana.
Celebriamo le vittorie (che spesso non sono merito nostro, ma demerito altrui) e siamo incapaci di riconoscere l’imprescindibile utilità delle sconfitte nel pieno compiersi del nostro percorso esistenziale.
Anche in questo, con un sorriso, può venirci in soccorso lo sport. Mentre la società civile fa di tutto per nascondere le sconfitte, personali e collettive, nel rubgy (al torneo Sei Nazioni) è stato istituito un premio, il Cucchiaio di legno. Certo, il suo significato è una divertente presa in giro di chi realizza l’ambito traguardo di arrivare sesto su sei partecipanti, cioè ultimo relativamente ai partecipanti. Tuttavia, resta pur sempre un premio, che ricorda un evento sportivamente negativo nel tempo ma che richiama già nel materiale l’utilità (di legno sono i tetti delle case in montagne, di legno i letti più comodi e belli, di legno i cucchiai con cui si prepara il sugo e il ragù) e la resistenza alle avversità (elettricità, calore).
Del resto, anche la liturgia ci parla, nella liturgia pasquale di “felix culpa”; non già perché sia bella o felice la colpa (si parla di peccato, che, allontanando dalla gioia, non è mai augurabile), ma lo è in relazione alle porte che essa spalanca: ci mostra la benevolenza e l’amore di Dio e ci consente di gustare il perdono. Tutti, reciprocamente, ci offendiamo; per questo, abbiamo la necessità di sentirci nuovamente accolti, da chi abbiamo offeso con la nostra mancanza di attenzione, rispetto, cura. Se ci pensiamo bene, proprio gli attriti ci fanno conoscere meglio le persone: se ci sono persone con cui non abbiamo avuto discussioni, è perché la relazione che abbiamo instaurato non ha raggiunto la profondità necessità perché possa dar luogo alla possibilità di contrasti. Infatti, se ci facciamo caso, con le persone che conosciamo poco, evitiamo accuratamente ogni argomento che possa causare conflitto (parliamo del tempo atmosferico, di luoghi comuni e di altre cose che, per tacito accordo sono al di fuori degli argomenti “sensibili”, evitando accuratamente la politica, la morale, la religione e tutto ciò che, potendo fare riferimento a diversi schemi di valori, può non essere condiviso all’unanimità). Ma è proprio attraverso i microconflitti su ciò che conta che, piano piano, le relazioni diventano più profonde e i confronti veri e coinvolgenti. Con il rischio, naturalmente , di farsi coinvolgere un po’ troppo, mancare di rispetto, sovrastare chi dialoga con noi: ma questo è un rischio da correre perché solo nella verità è possibile sperimentare l’amore.
Ricordiamoci, quindi, dei cucchiai di legno che abbiamo conquistato: è fare memoria, con gratitudine, di tutti quei passi falsi che ci hanno consentito di raddrizzare il cammino e camminare – poi – più spediti, decisi e convinti verso quella che è la meta che contraddistingue la nostra vita.

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