E’ una legge che abita il cuore stesso dello sport: la vittoria sull’avversario è memorabile quando l’avversario viene sconfitto sul terreno di gioco, nel pieno della competizione. E’ vero: si può vincere anche per la squalifica di chi ti ha preceduto o per un infortunio improvviso dell’avversario: rimangono sempre vittorie ma forse manca loro quel tocco di nobiltà che proviene solamente dallo scontro diretto. Che sia lo sport, la politica o qualsiasi altra avventura nulla cambia: è la forza dell’avversario che decreta la nobiltà del tuo gesto. Sono ormai mesi che un drappello di farneticanti ha come bersaglio il Ministro Cecile Kyenge: la offendono, la insultano, lambiscono quella terra di confine che separa la civiltà dall’inciviltà, le riversano contro epiteti che vanno al di là di un pensiero, di una visione, di una lotta di civiltà. Che un’idea vada vagliata, che un’azione politica vada criticata, che una presenza possa essere discussa è nella grammatica stessa della democrazia: l’inciviltà nasce laddove non riesco a vincere l’avversario ad armi pari e tento una scorciatoia scorretta. Nello sport lo chiamano “doping”, nella Chiesa è conosciuto con il nome di “sospetto”, nella politica è racchiuso nella parola “denigrazione”: è quel ragionare per luoghi comuni, con pensieri farneticanti, con un’ideologia disumanizzante che arresta l’uomo nello sviluppo stesso della sua coscienza civile. Facendo di lui un semplice megafono che rumina ad oltranza le solite frasi fatte.
E’ l’ultimo grido del dinosauro, il colpo di coda del drago, l’ultimo starnazzare dell’oca in punto di morte: non essendo riusciti a vincere su terreno di gioco, s’innesta la marcia della denigrazione. Tutti tesi ad elaborare l’insulto più becero – salvo poi ritrattare in punto di querela, ndr – questi signori non s’accorgono di divenire vittima dei loro stessi pensieri: qualora questa donna fosse una nullità, il loro scagliarsi contro altro non farebbe che darne una fisionomia, decretarne una presenza, gridarne un fastidio. Che è come dire: “mi sono accorto che ci sei, vattene!”. Ma in un mondo pieno di gente che vive senza che nessuno si accorga di loro (cosa diversa dall’eroismo anonimo) morendo nuovi di stecca, il loro fischiare è altro non fa che esaltare al massimo grado una presenza che è pietra d’inciampo per una certa umanità. E che arreca loro la risposta più bella, al netto della profezia evangelica: “penso che chi mi insulta – disse qualche giorno fa la signora Kyenge – sia gente che non sta bene interiormente. Il mio lavoro è cercare di intercettare questo malessere e tentare di dare una risposta”. Non penso sia una civetteria fine a se stessa o una superiorità etnica o genetica da affermare. La leggo più come il riconoscimento di una semplice constatazione: con gli imbecilli – di cui l’ignorante è il figlio primogenito – è inutile parlarci perchè prima ti portano al loro livello e poi, per esperienza, ti battono.
L’insulto è un’avvisaglia che il perdente lancia al mondo intero: “sto morendo, tento il tutto per tutto”. E’ anche una dichiarazione di sconfitta: “non riesco a batterti sul tuo terreno, perciò ti insulto”. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, non trattiene frammento di nobiltà alcuna: rimane lo specchio di una tristezza fastidiosa e di una gelosia distruttrice che alberga nel profondo del cuore. Oltrechè di un’ignoranza spaventosa in termini di dignità umana e senso della civiltà. L’Altopiano di Asiago accoglie il turista con una foto del suo celebre formaggio: sotto ci sta la scritta “buoni si nasce, non si diventa”. Forse è così anche per certe persone: signori si nasce, non si diventa. Per fortuna; e purtroppo.
(da Il Mattino di Padova, 13 agosto 2013)