Con l’afflato di un mistico pensatore e, addosso, la tormentata dolcezza di una terra che gli ha dato radici, sprazzi di luce e frammenti di narrazione poetica. Perchè Mario Rigoni Stern – del quale il 16 giugno è ricorso il quinto anniversario della scomparsa – non è stato solo un cantastorie innamorato delle sue tradizioni e fedele alle sue liturgie, ma lo scrittore che ha mostrato come per conoscere il mondo non occorra percorrere chissà quali spazi ma basterebbe abitare con sguardi profondi quella piccola zolla di terra, affannosa e stanca, nel cui ventre giace forse la radice di un fiore. La forza delle betulle e il profumo dei larici, il canto dell’urogallo e le traiettorie delle pernici, le mulattiere stanche e la transumanza d’autunno; i vagiti dei primi amori clandestini e la storia di Giacomo, il profumo della nostalgia e il cigolio della carrucola nel pozzo, il tonfo di una mela che cade e quel pugno di companatico strappato dentro le isbe dei russi. Eppoi il respiro affannoso e stanco del ribelle in guerra, la cantilena quieta del cuculo e quel bosco popolato di suoni, aromi e richiami dentro il quale seppe intravedere l’armonia di un mondo antico e sempre nuovo. Un uomo delle vette, non certo quelle della retorica e di un’insana modestia, bensì le vette aguzze e pregne di storia delle sue montagne dell’Altopiano cantato, celebrato, immortalato attraverso lo sguardo di chi, nella letteratura, seppe trovare l’alfabeto per cantare la grandezza del quotidiano.
Anche dopo decenni, le sue pagine rimangono il testamento più bello che una generazione narra all’altra: scoprire il senso nascosto dentro le cose. Oggi che l’uomo rischia di apparire come una casa disabitata, il “sergente” sembra rilanciare l’invito a scoprire quell’alfabeto che tiene unite in allegria anche le cose apparentemente più disparate. Non è forse un caso che gli uomini felici Rigoni Stern ami incontrarli e farli vivere nel silenzio claustrale di una contrada di paese, nella casa innalzata sul limitare del bosco, nel deserto della solitudine e della concentrazione; perchè laddove i beni sono più abbondanti, per lo scrittore di Asiago gli uomini hanno anche più possibilità d’ingannarsi sulla natura della loro felicità. Tutta la sua narrazione, infatti, sembra la celebrazione non tanto delle cose materiali – fossero anche i teneri germogli di narciso o le timide traiettorie di una pernice – ma del senso che queste cose rivestono quando l’uomo decide di costruire il suo impero interiore, quello che gli permetterà di reggere i terremoti della natura e dell’anima. Giacomo, Tonle Bintarn e tutti i personaggi ai quali ha dato voce ed esistenza sanno che non è possibile dare la felicità agli uomini come fosse un bene materiale: è necessario, invece, infondere in loro il desiderio della felicità per fare di loro degli abitanti del mondo e non dei semplici campeggiatori di passaggio.
Non scrisse libri per poi venderli: se un poema fosse oggetto di commercio non sarebbe più un poema. Scrisse, forse, per sdebitarsi con la vita e con la sua terra. Per questo non amò dipingere né la semplicità né la complessità della vita, né il suo chiarore né tanto meno la sua oscurità, non trattò della sua incoerenza o della sua contraddittorietà. Semplicemente cantò la vita in sé stessa. Se decise di intonarne il canto da quassù – dove d’estate le vacche ingrassano e d’inverno i tassi russano – è stato per raccontare il segreto del suo penetrare il cuore umano: per sedurre occorre sposare una causa, fino a farla diventare il senso di una parola che, sorretta dalla luce di un’intuizione, divenga sorgente di luminosità per coloro che in essa s’imbattono. Perchè di nessun paese si possa dire che quello non è paese, ma una scorza di paese pieno di morti che credono di essere vivi. Parola di Mario Rigoni Stern.
(da L’Altopiano, 22 giugno 2013)