Come una sorprendente stonatura, declinata con quel latino che la Chiesa ha scelto come lingua materna: “Tu es sacerdos in aeternum” (“Tu sei sacerdote in eterno”). Declinato con perfezione musicale e intonatura di spirito – oltrechè con un tocco di umana emozione – per Mattia, Denis e Alberto, i tre ragazzi che oggi verranno consacrati sacerdoti nella Cattedrale di Padova. Uomini non più uomini, con addosso la disumana responsabilità di una chiamata che, nonostante le simulazioni pastorali, non prevede addestramento ma da domani li getterà subito allo sbaraglio. I discepoli per primi, loro per ultimi; in mezzo una nutrita schiera di uomini e di storie che Dio sta usando per raccontare al mondo l’ebbrezza di un incontro capace di trasformare l’esistenza. E il cui seguito il mondo lo legge nei lineamenti di chi, anche in piena bufera, intona canti di festa: “Beati i piedi di coloro che sui monti annunciamo la pace”.
Nelle loro anime pulsano gli stessi desideri e le stesse ansie dei ragazzi d’oggi, condite dalle mille paure che costellano il quotidiano dell’uomo. Eppure tutto ciò non varrà loro come giustificazione: da domattina, a campane spente e applausi mandati in soffitta, c’è una terra da seminare, un popolo da guidare e una Promessa da far gustare nel cuore della storia. Sono ragazzi dai sogni fluorescenti: ogni ragazzo avverte nostalgia di una vita che sia all’altezza dei suoi sogni. Eppure, mai come nella vita di un prete, resta da verificare se i sogni che tiene nel cuore corrispondano o meno ai sogni di Dio: in caso affermativo ci sarà da sgobbare per profumarli di umile appartenenza a Cristo, in caso contrario ci sarà da spaccarsi la schiena per rimanere fedeli ai sogni del Cielo lottando aspramente con le sirene di quaggiù. In un caso o nell’altro, vale lo scotto pagato dalla ciurma dei primi profeti fino all’ultimo martire del Vangelo: non ci sarà fedeltà senza rischio. Quel rischio che nell’eucaristia vale il più denso degli accrediti, sulle note di una vecchia canzone melodica: “la nostra speranza è un pane spezzato, la nostra certezza l’amore di Dio”. Il tutto dentro la tessitura di una Chiesa che, per quanto umana e imperfetta, è rimasta quaggiù la traccia della Sua presenza. Chissà quale immagine di Chiesa campeggia nei cuori di questi tre ragazzi: se quella studiata puntigliosamente sui libri di teologia o quella che trasuda nelle strade dove la gente si guadagna il pane, nei tuguri della storia come nei bassifondi della società. La prima è necessaria per tracciare la traiettoria, la seconda è indispensabile per non far sentire nessuno a disagio in fronte ad essa. Non sarà forse più umano mostrare come la Chiesa sia ancor più bella, luminosa e degna di fiducia e amore nel mentre sente l’eterno bisogno di riformarsi più di quanto è statica e immobile? Più che una congregazione di sfingi e di superuomini sarà bello parlare di lei come di una casa paterna, popolata di disordine e di sedie sgangherate, di tavoli sporchi e di posate che mancano, di conti che non tornano e di dispense misteriosamente svuotate. Con un Padre, però, seduto a capotavola che ogni sera annuncia il sospetto di un mattino di sorpresa per ognuno dei suoi figli.
Preti in una Chiesa guidata da Francesco, Papa dalle parole semplici, dalle metafore terrigne, dalle perifrasi spietate nel tentativo di tenere desta la sua Chiesa: contro i “cristiani da salotto” e le troppe “facce da peperoncino sott’olio”, la necessità di spalancare il “cuore stropicciato” e la sua insistenze sull’uscire più che sul bivaccare dentro le navate. Per una Chiesa che, non volendo parlare a vanvera, conosca il linguaggio della gente: quel linguaggio che s’apprende meglio nelle “periferie esistenziali” laddove, come segno di appartenenza, rimane cucito addosso “l’odore del gregge”. Che è un anticipo del profumo di Dio.
(da Il Mattino di Padova, 9 giugno 2013)