Forse è vero: la grandezza di un’anima si misura in base alla grandezza dei suoi sogni!
Queste sono forse le prime parole che mi vengono in mente, pensando a don Marco.
Alcuni pensano a lui come ad un anticonformista. Ma lui ha una marcia in più: è un anticonformista evangelico. E questo aggettivo non solo è importante, ma è fondamentale per descrivere i pensieri e le opere di don Marco. Può essere stato frainteso in più di un frangente, ma da sempre il suo intento non è mai stato la propria gloria personale, ma l’annuncio di Cristo: ai vicini, ma soprattutto ai lontani. È in quest’ottica che va interpretata la sua ricerca fantasiosa di nuove modalità di evangelizzazione che potessero essere accattivanti per gli ascoltatori, ma senza rinunciare neanche ad un grammo del suo Cristo, anche e soprattutto per quegli aspetti che potevano talvolta farlo sembrare anacronistico o eccessivamente impegnativo. E mi preme precisare che parlo di “suo” non perché don Marco abbia un Cristo personale, fatto a propria immagine e somiglianza, ma perché quel suo sottolinea il legame affettivo sempre presente, che lo guida nel suo cammino e in ogni sua scelta, anche quando c’è il rischio che appaia l’opposto. Ma lui questo rischio ha sempre scelto di correrlo, amando stare ai margini per avere la possibilità di sfruttare quello spazio di libertà, che tante volte, nella storia della Chiesa, si è rivelato terreno fertile per lo Spirito Santo.
Quando incontro un prete un po’ sopra le righe, personalmente io lo metto subito a confronto col Vangelo: se lo edulcora o cerca di depotenziare la forza della Parola che vi è contenuta, io mi metto sull’attenti ancora di più. Ma quello che mi ha colpito è proprio che, fin dal primo incontro, le sue parole non erano solo provocatorie, ma anche molto chiare: ogni cristiano deve mettere in conto il martirio. Il martirio: non come un’ipotesi remota, o una realtà storica del passato, ma come un ideale non da ricercare ma da tenere presente, se si vuole essere veri cristiani. Una frase così non può lasciare indifferente, perché può nascere solo da una persona che crede veramente in Dio e non ha fatto dell’egocentrismo il proprio credo, ma è consapevole di seguire una Persona, a cui intende assicurare la massima fedeltà possibile, compatibilmente con i propri (inevitabili) limiti umani.
In un certo senso, anche se capisco che potrebbe sembrare un assurdo, proprio questo discorso (o, meglio, inciso!) sul martirio mi ha fatto pensare alla sua affidabilità. Perché se un prete riconosce il martirio come possibilità reale e concreta per un cristiano (qualunque cristiano), significa che ha ben chiara innanzitutto una gerarchia, che è poi la stessa che trapela dagli Atti degli Apostoli: «Bisogna obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini!» (At 5, 29).
Senza dubbio, può anche suscitare scalpore la sua originalità, la sua sportività e creatività che trasudano da tutti i pori. Eppure, io trovo che tutto ciò possa lasciare due spunti ugualmente interessanti. Il primo è ricordare che Dio ci chiede tutto, ma senza togliere nulla: ci chiede tutto, ma lo chiede a noi stessi, che abbiamo un volto, un nome, una storia, un passato e una famiglia ben precisi; non ci chiede di rinnegare nulla di noi stessi, ma di mettere i nostri talenti al suo servizio e al servizio dei fratelli. Il secondo è la necessità di fare spazio allo Spirito. Una certa idea (o ideologia!) di Chiesa, troppo affaccendata alla bella presentazione, su carta bollata, rischia di imprigionare l’imprevedibilità dello Spirito e di dimenticare che Gesù non ha mai invitato a sedersi dietro a una scrivania, ha piuttosto esortato a seguire lui che cammina. Ecco perché colore, inventiva, fantasia, originalità e spirito d’iniziativa non sono un peso che rende difficoltoso il cammino, ma c’è la possibilità anche abbastanza concreta che possano invece rappresentare un’opportunità per camminare più spediti, consentendo allo Spirito di soffiare davvero dove vuole, dalle finestre volutamente lasciare aperte (o quanto meno socchiuse) per scompigliare qualche carta troppo ordinata.
Il rapporto con la Chiesa non è mai facile. Non lo è perché abbiamo sempre davanti ai nostri occhi la Chiesa dei nostri sogni: una Chiesa mite, umile, povera e accogliente. Una Chiesa che su tutto sappia amare, accompagnare, accogliere, sostenere. Come una madre. E invece, qualche volta, abbiamo addirittura l’impressione che assomigli alla matrigna di Biancaneve, sempre pronta ad approfittare di ogni errore per umiliare. Eppure, gli errori della Chiesa sono utili. La sofferenza che ci provoca lo è. Niente è difficile quanto giudicare se stessi, e tanti errori nostri, anche grossolani, ci sfuggono. Ma, vedendoli nella Chiesa, ci risultano più evidenti, meno celati, fastidiosi. Di quel fastidio che probabilmente non riusciremmo mai a provare nei nostri confronti, ma che riusciamo a percepire nei confronti degli errori altrui. Compito difficile è quello della Chiesa, chiamata a chiamare alla sequela di un Cristo quasi impossibile da imitare, nella sua esemplare dolce fermezza, nella misericordia infinita che non smette mai di riportare però alla giustizia. In effetti: come somigliare a un Dio che si fa Pane, che si lascia versare, spezzare perché tutti possano esserne arricchiti? Senza dubbio, siamo di fronte ad un Dio strano, a tratti poco comprensibile, che si fa manifesto di generosità, fino alla prodigalità.
Sembra una battaglia persa. Invece, è la battaglia quotidiana di ogni cristiano, la sfida che ciascuno è chiamato ad accettare. Continuando a sognare una Chiesa diversa, consapevole che il primo passo per ottenerla è vincere i propri egoismi, il proprio caratteraccio, le proprie lune e paturnie di vario tipo. In una parola: tutto ciò che allontana dall’essere immagine di Cristo.
Quello cristiano, del resto, è in sostanza un grande sogno. Un sogno che guida gli altri sogni, una speranza che va oltre le attese, nella certezza che Dio ama oltre ogni misura.
È questa la chiave di lettura per poter leggere anche il recente impegno di don Marco presso il carcere Due Palazzi di Padova. Un prete dietro le sbarre. “Un prete da galera”, come ama definirsi lui stesso, a sottolineare come sembri proprio uno scherzo del Destino (o una macchinazione della Provvidenza…) che proprio una faccia da schiaffi come lui sia finito in un istituto di pena.
Un prete in carcere è assolutamente necessario, nonostante qualche benpensante potrebbe ritenere l’opposto: “chi ha sbagliato è giusto che paghi, anche (quando non soprattutto) con la solitudine e l’abbandono da parte della società sana”. Questo però è lontanissimo dallo scopo vero che si prefigge il penitenziario e ancora più distante dal cuore di Cristo. Il cappellano, in carcere, rende presente il volto della Chiesa che vuole farsi compagna del peccatore (ma non del peccato!), viso amico nella sventura, persona fidata disposta a lenire le piaghe di una sofferenza e di un malessere molto spesso interiore e di cui ciascuno dovrebbe ritenersi, in un certo senso, responsabile.
La sfida attuale, che riempie quotidianamente le sue giornate, è particolarmente significativa: si tratta di trasmettere la Bellezza del volto di Cristo attraverso la delicatezza di un’attenzione, il quotidiano tentativo di resettare pregiudizi e incomprensione per poter guardare chi abita il carcere non solo con una classificazione sulla base della colpa, ma con uno sguardo umanizzante che sia in grado di far percepire la tenerezza di un Dio incapace di dimenticare i suoi figli.
Dopo nove anni di sacerdozio creativo, l’apertura alla Grazia suggerisce un atteggiamento di gratitudine per l’opportunità di rinnovare ogni giorno la complicità di realizzare, già qui sulla Terra (almeno in parte), il sogno di Dio!