bullo

Con addosso lo sberleffo dei giorni peggiori. A giustificarlo quel senso di impunità che pensavano fosse loro concessa, non si sa bene in virtù di quale merito. Avventure quotidiane sotto il cielo di una città come Padova: rapine e ricatti, “erba” e pasticche di ecstasy, marijuana da smerciare e “morose” soffiate da riscattare. Sono giovani qualunque, ragazzi della porta accanto, gioventù del quartiere, eternamente in bilico tra l’arroganza e la timidezza, tra il ricatto e la supplica, tra il rimorso e la sopraffazione. Una fetta di giovinezza che, probabilmente, a forza di vivere nel virtuale ha perduto la capacità di capire dove finisce il gioco ed inizia la realtà, dove termina il lecito e inizia l’illecito, dove finisce la foresta e inizia la civiltà. Più che i contenuti delle loro gesta – ultimo capitolo di una “saga” che sembra non conoscere un tramonto – ad impressionare è lo stile: il fatto che si possa sbeffeggiare non tanto una persona, che già di per sé segnala la “spia di riserva” di umanità, quanto un simbolo, svuotando così la società di ciò che le permette di stare in piedi facendo coabitare sotto lo stesso cielo lingue e accenti diversi. Non sbeffeggiano l’uomo con l’accento straniero o la donna zoppicante, il ragazzo storpio o la ragazza oversize, il prete con la tonaca o la suora col velo, il figlio del contadino o il poliziotto: sbeffeggiano la legalità e la giustizia, ovvero le due ali che permettono ad una città di spiccare il volo.
Un giorno magari finiranno dentro le celle di una galera, a riempire quella folla di “innocenti” ingiustamente condannati. Speriamo non ci tocchi attendere quel giorno per raccontare a questi ragazzi dalla calligrafia complicata che le grosse azioni nascono sempre da piccoli episodi che sembrano banali. Eppure è da millenni che il male si presenta come una china pericolosissima: sporgersi un metro oltre o arrestarsi un metro prima è sovente cagione di speranza o di disperazione. Tutti hanno qualcosa da salvare: non ci sono persone irrecuperabili per definizione, nemmeno dentro il ventre delle patrie galere. I mostri non esistono, chiunque ha un nucleo di umanità da difendere e da promuovere. In costoro, però, ciò che forse si dimostra “a corto” è quella domanda di senso che qualche grande pensatore additò anzitempo come la malattia del secolo. Un vuoto esistenziale, una siccità dell’anima, una fatica del desiderare e dello sperare che porta a riempie il vuoto con i surrogati della disperazione. Senza accorgersi del paradosso che si sta vivendo: anche quando hai trovato un modo per riempire il tuo vuoto, non ti senti però libero da quel senso d’angoscia che ti attanaglia e così sei costretto a sprofondare sempre di più nella bestialità della violenza e della sopraffazione. Finendo per non saper più distinguere il bene dal male, la verità dalla menzogna, il lecito dall’illecito.
Le accuse nei loro confronti sono pesantissime: viaggiano dallo spaccio ai furti passando per il favoreggiamento personale. Materia da far tremare i polsi oltre che complicare i sogni e le speranze delle loro giovani esistenze. Chi oggi li giustifica – “sono ragazzi!” – forse non intuisce che cittadini non si nasce ma si diventa: con le regole, con la convivenza, con azioni di sano protagonismo. Varrà forse la pena, se il tempo e le circostanze lo permetteranno, raccontare loro come il bullismo sia l’alfabeto dei deboli e non il credito delle personalità forti; come il rispetto della legge non appartenga agli “sfigati” ma alle persone capaci di cittadinanza; come i sogni di una città non siano per gli “addetti ai lavori” bensì il frutto della fatica di tutti. Anche di chi pensa di poter vivere eternamente al di sopra delle regole. E in barba ad una città.

(da Il Mattino di Padova, 19 maggio 2013)

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