bimbo-tristeDivorzio, matrimonio omosessuale, aborto: come raschiare l’habitat naturale per crescere un figlio e parlare di progresso.
Senza dubbio, paiono tematiche assolutamente diverse, quando non diametralmente opposte tra loro. Alla prima occhiata, però.
A guardare con maggiore attenzione, credo sia invece impossibile che sfugga un’identica direzione in tutte queste diverse tendenze: si tratta di una malcelata scelta di mettere in secondo piano il futuro, mascherandolo come attenzione all’attimo presente. È in pratica la mancanza di cura e d’attenzione verso l’infanzia che in concretezza caratterizza il mondo attuale. Si sta lentamente, progressivamente ma inesorabilmente destrutturalizzando, poco per volta (come la rana che non si accorge di essere cotta o come il forellino nella diga, tutte immagini conosciute di chiaro impatto): tutti questi sono esempi in cui gli interessi dei bambini rimangono in sordina, mentre i “capricci” dei grandi diventano misura delle scelte possibili.
Partiamo dall’ultimo, cioè l’aborto: concretamente rappresenta ciò che simbolicamente rappresentano anche gli altri due. La distruzione dell’ambiente naturale per la crescita del figlio. Perché questo è quello che l’aborto (così come gli anticoncezionali abortivi) provoca nel ventre della madre. Elimina il feto, se presente, e rende arido e non accogliente il ventre materno. In poche parole, lo snatura, dal momento che esso è concretamente, fisicamente, ma anche simbolicamente predisposto all’accoglienza verso il figlio. È in sostanza la negazione della natura stessa della donna, di come il suo stesso corpo si comunica a lei e al mondo intero: da terra fertile, si trasforma in landa desolata. Spesso a motivo dell’inseguimento di successo e denaro, magari in un mal interpretato femminismo che spinge ad emulare gli uomini, talvolta nelle loro espressioni peggiori.

Vi è poi il divorzio: non importa se cronologicamente sia venuta prima come possibilità legale, ma ontologicamente è prioritario l’aborto in quanto vera e propria eliminazione della prole. Per tale motivo, tra i vari mali che affliggono l’umanità, esso è il maggiore, unitamente a tutti quegli atti violenti che la deturpano e le fanno dimenticare il proprio volto originario di creatura alla ricerca del Bello e del Vero. Tuttavia il danno causato dalla liberalizzazione del divorzio è sotto agli occhi di tutti e non è da sottovalutare. Anche in questo caso, i primi a pagarne le conseguenze sono sempre i figli. È vero, è possibile in teoria divorziare un mese dopo il matrimonio, ma, nella pratica, le statistiche ci mettono di fronte a divorzi che avvengono in media 15 anni dopo il matrimonio (cfr. Il sole 24 ore), quindi quando, generalmente, ci sono già dei figli in età scolare. Vi sono poi addirittura coppie che si separano dopo trent’anni o più di matrimonio. Personalmente mi sembra abbastanza paradossale: trent’anni sono metà della propria esistenza, in cui si ha avuto tutto il tempo e il modo di conoscere l’altro, per cui proprio non mi capacito di come sia possibile tornare sui propri passi dopo così tanto tempo ed esperienze vissute insieme!
Tornando alla statistica, dunque, i figli vivono spesso il divorzio dei propri genitori durante un’età critica, dunque l’infanzia o la prima adolescenza, cioè quando la propria identità è in piena fase di costruzione. Ecco perché, per quanto i genitori pongano tutta la massima attenzione nel coinvolgere il meno possibile il figlio in questo passaggio, inevitabilmente questo sarà un trauma che gli causerà problemi, più o meno gravi, che ne muteranno l’esistenza. Comporterà la necessità di farsi nuove domande, ritrovare un proprio baricentro nel microcosmo degli spazi, dei tempi e degli affetti.
Discorso tutto sommato non molto diverso riguarda l’estensione del matrimonio alle unioni tra persone del medesimo sesso, diventato legittimo, cioè possibile, recentemente in un Paese a noi molto vicino, come la Francia (nonostante le numerose proteste di Piazza, tramite le quali la voce contrariata del popolo francese si è fatta sentire, una su tutte la Manif pour Tous): si tratta ancora una volta di una prevaricazione delle voglie dei grandi assurte imprudentemente a diritti universali. Per i grandi. Incuranti di quale sia il vero bene per i piccoli. Al riguardo sarebbe da rileggere il brano in cui Salomone scopre chi sia, tra due donne, la vera madre del figlio che gli viene presentato (1Re 3, 16-28): tra gelosia ed emulazione, l’estensione indebita di alcuni diritti finisce inevitabilmente con il rappresentare una sorta di scimmiottamento della famiglia naturale, così come alcuni atteggiamenti tipicamente maschili di cui si appropria un certo femminismo finiscono con l’assumere il ruolo di “brutta copia” di qualcosa che non può essere impunemente traslato da un soggetto all’altro, senza che sia dimenticata la grande ricchezza rappresentata dalla differenza1.
Tutte queste “novità”, introdotte con maligna gradualità all’interno della società umana con il velato, ma non del tutto celabile, intento di provocarne la necessaria assuefazione, hanno come effetto una sorta di richiesta ai nostri figli di trasformarsi, fin da piccoli, in acrobati provetti, chiamati a trovare il proprio equilibrio, nonostante il mondo intorno a loro faccia di tutto per farglielo perdere. Certo, senza dubbio, molti ci riusciranno ugualmente. Si faranno le ossa e “andranno avanti”. Ma certo non aiutati dal contesto familiare o sociale in cui si è cresciuti. Tante cose, se non tutte, si superano. Si diventa, anzi, forse più corazzati di tanti altri coetanei. E questo, da un certo punto di vista, può senz’altro essere un bene. Avere una spina dorsale è una necessità che i figli del Sessantotto avevano perso di vista: ma qui il rischio è una carenza più grave ancora. È la mancanza di valori su cui fondare qualcosa che non sia effimero, ma duraturo. Dove trovare la voglia di scommettere sull’Amore Vero, se tutto, ma proprio tutto, intorno a noi è provvisorio e instabile?
Questa è quindi, come abbiamo visto, la realtà dei fatti: a poco a poco, il figlio perde diritto di cittadinanza all’interno della società umana. È il primo passo verso la propria autodistruzione. Lo è innanzitutto dal punto di vista naturale (contrasta la legge di natura per eccellenza, cioè quella che favorisce il proseguimento della specie), ma è anche un cataclisma a livello sociale, civile e morale: diffonde il pessimismo, mortifica la speranza, annienta la fede in un futuro migliore e rende difficile la solidità dei rapporti.
Ecco perché urge ripartire dal Futuro e tornare a mettere al centro gli uomini di domani.


1) L’antropologo Gehlen è stato l’autore di ‘Prospettive antropologiche’ e in una delle sue riflessioni prende spunto dall’episodio biblico di 1Re 3,16-28, meglio conosciuto come ‘il giudizio di Salomone’, per spiegare il concetto di “vuoto di oggetto”, ossia la tendenza di certe persone di emulare comportamenti altrui disinteressandosi dell’oggetto in questione. Tale emulazione verrà poi definita da René Girard come ‘desiderio mimetico’ ossia quello di apparire e prendere come riferimento un altro soggetto e le sue azioni e in generale tutte le contingenze che lo riguardano.
Nella fattispecie del racconto biblico questo fenomeno è testimoniato dalla falsa madre che è disponibile a dividere il bambino in due lasciando intendere che la sua è semplicemente invidia e non il desiderio reale di accudire un bambino. La madre naturale invece è disponibile anche a rinunciare al proprio figlio per il suo bene al prezzo altissimo del distacco.
Nel caso degli omosessuali che desiderano adottare o sposare si applica la stessa analisi. Il loro non è un desiderio ‘oggettivo’ ma un tentativo blando di apparire uguali agli eterosessuali. Essi sono disponibili anche ad accettare che migliaia e migliaia di donne del terzo mondo siano ‘pagate’ e sfruttate tramite la pratica dell’utero in affitto che trasforma il soggetto femminile in una macchina ‘sforna bambini’ e i bambini stessi diventano ‘oggetto’, ‘merce di scambio’, suscettibili a valutazione economica.
Le adozioni ai gay sono un affronto alla dignità della donna e del bambino. (Fabrizio Cositore, nel Gruppo “Crede ut intelligas, intellige ut credas”).

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