Reggono le sorti del mondo con la semplice forza delle cose di tutti i giorni: la loro arte – discendenti dirette della Donna dei Vangeli – è quella di tessere in un’unica tela il quotidiano e l’eterno, i giorni lavorativi e quelli di festa, la fatica della settimana e la gaiezza della domenica, il lievito e la farina. Sono donne simili a mille altre, eppure la maternità che le ha rese madri ha lasciato in loro un fremito di novità. Nessuna di loro è nata mamma: anche la loro, come l’avventura disumana di ogni vocazione, non prevede un addestramento a priori ma esige lo sbaraglio più imprevedibile. Eppure sembrano creature nate coi vestiti cuciti addosso tanto sono diventate ambasciatrici collaudate della vita che non muore: nelle sale parto degli ospedali come nelle trepidanti sale d’attesa di un ambulatorio, aggomitolate alle loro stoviglie come titaniche davanti alle sbarre di una galera, festose a condire pietanze come indaffarate a tenere accesa la speranza, le trovi sempre pronte al posto giusto. Più che fortuna è fedeltà ad una chiamata, più che improvvisazione è imperscrutabile mistero di donna, più che supplenza è garanzia di una presenza che mai scompare. Nascoste e invecchiate, silenziose e indomite, con le occhiaie e a piedi scalzi, invisibili eppure presenti nel cuore della storia.
Le più audaci le trovi agli incroci dell’esistenza, laddove le strade si restringono, scivolano sul limitare di un burrone, sembrano essere “a vicolo cieco”. Sono le strade nelle quali abita la malattia e la miseria, il fallimento e la desolazione, l’ambiguità e l’insofferenza. Sono le strade che, assieme alla polvere, rendono i vestiti sudici di angoscia e di timore, di quel sentimento opaco e pericoloso chiamato vergogna. A quegli incroci – fossero pure le sbarre di una patria galera – le contempli ritte in piedi: dietro di loro i giudizi del mondo, davanti a loro la forza dei sentimenti, dentro di loro la semplicità d’essere capaci di tracciare la rotta in un mare in tempesta. Perchè diventare madre è cucirsi addosso una missione che toglie il respiro, che sfida l’ignoto, che tutela la vita fin dentro i bassifondi polverosi della storia dell’uomo. Il loro esserci, quando la miseria fiacca l’animo e la vergogna offusca lo sguardo, è l’eco di una speranza che sempre abiterà nel ventre della storia. Fin quando, almeno, una donna troverà il coraggio di prestare alla vita il suo grembo perchè possa trasformarlo in un laboratorio in cui tessere una nuova nascita.
La vecchiaia che avanza non le rende più anziane ma più sapienti, le spalle incurvate dalla fatica in loro non disgustano ma tengono la forza dei tronchi annodati, le loro lacrime profumano sovente di paura ma mai di rassegnazione. Quella delle madri è una vecchia artiglieria da combattimento, avvezza alle lunghe attese e ai più aspri combattimenti: c’è la vita da salvare. Senza elmetto e senz’armi, scalze e martoriate, piccole e inermi la storia raccomanda che è sempre meglio averle nelle vesti di alleate che di avversarie: la forza d’animo di una donna che s’aggrappa alla vita è “simile al vento orientale, che squarcia le navi di Tarsis” (Sal 48,8). Perchè quando le guardi, pensi davvero che per loro l’augurio più bello sia oggi la convinzione che Darwin formulò in capo ad una vita di esperimenti: a sopravvivere non sarà la specie più intelligente ma quella più capace di adattarsi ai cambiamenti. I cambiamenti di chi, nata un giorno donna, della sua femminilità non tenne gelosa custodia ma, accettando il rischio della morte, seppe fare del suo grembo la “sala parto” di una piccola meraviglia chiamata vita. Quella che anche in tempi di incertezze e tremolii rimane la scorribanda inarrestabile della creatura i cui limiti sono a tutt’oggi in fase di studio. Perchè tendenti all’Infinito.
(da L’Altopiano, 11 maggio 2013)
(*) In occasione della Festa della Mamma, stampa queste righe e se vuoi falle trovare sul cuscino della mamma. Un modo semplice per dirle: “per fortuna che ci sei, mamma!”