donna

E’ la più democratica di tutte le discipline sportive: sulla linea di partenza, fianco a fianco, potresti vedere il campione olimpico della maratona e l’appassionato podista, il top runner italiano e il fruttivendolo del paese, la donna con la migliore prestazione stagionale e la signora che durante la settimana fa semplicemente la mamma. Che, poi, è il sogno di ogni sportivo: poter un giorno competere accanto al campione del suo sport preferito. Come per un appassionato di calcio giocare al Maracanà, ad un innamorato della bicicletta poter correre una Milano-Sanremo con i big del pedale o, al femminile, per una bambina che pratica il tennis poter giocare un doppio con Flavia Pennetta al Roland Garros. Quello che negli altri sport è semplicemente un’utopia, nella maratona è la splendida realtà quotidiana: tutti sulla stessa linea di partenza, dal campione all’amatore. Con una piccolissima differenza, che poi poco conta nella filosofia della maratona: a vincere sarà uno solo. Anche qui, però, si manifesta ciò ch’è proprio di questa disciplina: la vittoria conta poco o nulla di fronte al fatto di aver migliorato anche di un solo secondo il proprio primato personale. Per i più, poi, la sfida ha ancora di più il sapore delle cose semplici, laddove il vero piacere è quello di farcela a finirla, di tagliare quel traguardo che che è il simbolo di una piccola conquista fisica e spirituale.
A correre una maratona ci si confronta tutto il tempo della prestazione con il dolore: che ti invita a smettere, che ti prende in giro dandoti il sospetto d’essere un masochista, che ti tenta nel mollare la presa finale. Non è uno sport “mordi e fuggi”: una volta che ne sei stato contagiato quasi non riesci più a guarire. Il motivo è presto detto: l’alfabeto e la grammatica che dettano le regole della vita e della morte, della conquista e della disfatta, dello spirito e dell’anima sono i medesimi che abitano dentro questa spettacolare disciplina sportiva ch’è cagione di tanta fatica e di tanta applicazione. Perchè vivere è come correre, correre è come vivere, vivere è correre. Correre è sentirsi vivi. Forse per questo il terrorismo a Boston si è ingelosito della maratona ed ha colpito il suo simbolo sacro: voleva colpire la vita stessa, quella sana competizione che nel mentre corri t’infonde il sospetto che quella sia gente che ha scoperto nella fatica il segreto per non cedere alla disperazione. Il bello di questa disciplina non sono i record ma le storie che custodisce nel suo grembo di madre e di matrigna: storie di uomini e di donne che s’allenano sotto la calura d’agosto e il gelo di dicembre, che si alzano prestissimo la mattina o rincasano tardi la sera, che rubano tempo al sonno o lo chiedono in prestito alla “pausa pranzo”, gente che sorride sotto un acquazzone e non bestemmia per un accenno di vescica. L’atleta è un mistero bellissimo, un anticipo di tutto quello che serve per vivere da protagonisti, fino a sfidare e gestire quella crisi improvvisa che, magari ad un passo dal traguardo, tenta il tutto per tutto per farti arrendere.
Paolo, l’atleta di Cristo, scrisse: “corro perchè conquistato” (Fil 3,12); il maratoneta, agli amici, spesso dice: “non corro per andare a fare la spesa”. Il concetto è il medesimo, seppur detto con stile diverso: ognuno corre perchè là in fondo c’è un qualcosa che accende una motivazione, una spinta che t’invita a partire, un sogno che ti strega il cuore e che per raggiungerlo sei disposto a guerreggiare con la fatica e la disperazione. Per dare ragione a Winston Churchill quando scrisse: “ci sono tre cose grandi al mondo: gli oceani, le montagne e una persona motivata”. Dove la motivazione è non mollare perchè hai scoperto, allenandoti alla vita, che solitamente è sempre l’ultima chiave del mazzo quella che apre la porta.

(da Il Mattino di Padova, 21 aprile 2013)

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