roubaix

Intriso di polvere e con il volto striato dal tarlo dei sospetti, come una donna incurante del suo charme. Sembra questa l’immagine che il ciclismo ama mostrare di se stesso: si direbbe che le ha provate tutte nel suo più recente passato per farsi maledire dai suoi spasimanti, per distogliere dal suo sguardo le folle osannanti, per gettare alle ortiche quell’aurea corona di gloria e onore ch’è la sua centenaria grammatica e il suo colorato alfabeto. Lui – il figlio più esposto della grande famiglia dello sport – ha forse pagato lo scotto per tutti i suoi fratelli e sorelle un po’ scapestrate. Nel suo fagotto di insulti e indagini, ha raccolto il prezzo di un sospetto gigantesco che abita dentro il mondo delle gesta sportive: che l’uomo e la donna, forti delle loro sole forze, mai potrebbero arrivare laddove le scorciatoie li hanno condotti. E’ come una donna, sempre sul punto d’essere abbandonata: per incuria, per antipatia, per mancanza d’amabilità. Poi basta poco – anche solo la leggerezza di un lineamento – per riaccreditarle la fiducia di un altro giorno di seduzione. Come delle donne, così del ciclismo: sempre sul punto d’essere abbandonato, gli basta poi poco più di niente per tornare ad essere amato fin quasi alla derisione.
Un sospetto nato in corsa: domenica c’era la Parigi – Roubaix, una delle competizioni sportive nel cui nome poggia oltre un secolo di fascino. Una gara di polvere e fango, di gloria e disperazione, di sudore e di ghiaccio. Li vedi partire freschi e profumati dalla piazza di Compiegne, appena fuori Parigi: li ritrovi – quelli che arrivano – nella piccola cittadina di Roubaix sfiancati e stremati, sporchi di fango e disperati di fatica, polverosi e sfiniti, madidi di sudore e con le ossa traballanti. E’ la corsa del pavè, pietre spigolose più vicine al mondo agreste che a quello sportivo, più amiche della superbia dei trattori che della leggerezza delle biciclette. Sono state loro – pietre che nel passato servivano ai contadini per non affondare nel fango con i loro carri – a decretare il vincitore di questa gara infame e gloriosa: saper condurre la bicicletta sui loro lineamenti sconnessi e ingannatori, viscidi e informi, nascosti o spioventi è per lei motivo di discernimento per i pretendenti al suo talamo. In fronte a lei, domenica scorsa, c’era chi pedalava sulle pietre, chi sfruttava un piccolo corridoio di terra ai bordi della carreggiata, chi l’aggrediva deciso e chi lasciava scivolare la bici sulla strada sconnessa: ognuno l’ha affrontata con i suoi trucchi e la sua arte di seduttore. La gente – ai bordi della strada o nel divano davanti all tv – s’appassionava e bestemmiava, arricciava il naso e alzava il volume, s’arrovellava in mille pronostici e contemplava il mistero dell’imprevisto. Guardava la gara in tv e nel mentre pensava all’oggi della sua storia: la crisi ha tolto le strade comode e ha rimesso le vecchie carreggiate, manca la sicurezza dell’asfalto ed è riapparsa la fatica delle vecchie mulattiere, sono morte le vacche grasse e sono tornate quelle magre; si parte freschi e profumati la mattina, si rincasa spossati e polverosi la sera. Per una volta la gente ha guardato una gara di ciclismo ma, spenta la tv, s’è resa conto d’aver contemplato il ritratto di una delle tante giornate delle quali è fatta la vita.
Nel velodromo di Roubaix non sempre trionfa il più forte: a strappare la corona d’alloro è chi, allenato a dovere, sa affrontare meglio degli altri le pietre della gara, disegnando traiettorie all’istante e mostrando la capacità di non perdere il controllo dell’imprevisto. Mai come domenica il ciclismo ha messo nell’animo degli spettatori la nostalgia di un leader capace di condurre un gruppo sul terreno sconnesso di una crisi che ha cancellato le strade sicure e fatto riapparire le vecchie mulattiere. Dando ragione a chi – come Darwin – era davvero convinto che a sopravvivere non sarebbe stata la specie più intelligente ma quella più capace di adattarsi al cambiamento. O all’imprevisto di una strada che nel passato era asfaltata e oggi è tornata mulattiera. E chiede in testa al gruppo un leader capace di guidare il gruppo sulle pietre della precarietà.

(da L’Altopiano, 13 aprile 2013)

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