Con addosso l’incredulità dell’Amore. E nello sguardo il sapore di un mattino tutto ebraico che ha ringiovanito la mestizia dei giorni passati. Ancora loro, spaventosamente donne. Sempre e solo loro: nella grotta di Betlemme, nelle strade di Palestina, nelle retrovie dei miracoli, nel frastuono tremendo del Golgota, nello stupore pasquale di stamane. Nei Vangeli loro ci sono sempre: a mancare spesso sono gli uomini. Oggi il sogno più bello sarebbe quello di starsene tranquilli, giusto una manciata di attimi – prima che si levi l’alba di Pasqua – a contemplare queste donne mentre s’affrettano al sepolcro. Discorsi di donne e di madri: “Chi ci toglierà la pietra dal sepolcro?” Tremano ma non cedono, rantolano ma non s’arrendono, faticano ma non si siedono: si ricordano di essere donne. Poco importa se i capelli stamane sono spettinati o le vesti abbinate alla rinfusa, se la voce tradisce un accento di Galilea o se i passi raccontano di sogni: ciò che conta è che sulle loro spalle giace l’ultima esile fiammella di una speranza che sembrava essere stata vana. Ci sono sere in cui t’addormenti convinto che era tutto un sogno; ci sono mattine che al risveglio scopri che i sogni sono un anticipo di bellezza possibile.
Il loro profumo è la speranza, il loro linguaggio è l’attesa intrepida, il loro segreto è quell’essere rimaste sveglie mentre i discepoli maschi già s’erano addormentati nella malinconia che prelude alla rassegnazione. Loro campeggiano lì, ad un passo dal possibile, e sono invidiabili nella loro bellezza: prima di essere un libro scritto con l’inchiostro, il Vangelo è un libro dipinto sui volti di chi ha contemplato la Risurrezione in anteprima. Volti che hanno seguito tutta la traiettoria dell’amore: il tradimento e la passione, l’ignominia e la crocifissione, l’angoscia e il silenzio, l’attesa e la derisione. Il sole che sorge sopra la pietra di un sepolcro. “No, credere a Pasqua non è /giusta fede:/troppo bello sei a Pasqua!/Fede vera/ è il venerdì Santo/ quando Tu non c’eri/lassù!/” (Turoldo). Loro c’erano, Lui c’era: s’erano messi d’accordo di non perdersi per non far perdere al mondo l’alfabeto della speranza. Come testamento ha lasciato una brocca d’acqua e un catino: quanto basta per sciacquare i piedi stanchi dell’umanità. In cambio Gli hanno messo in mano un pugno di chiodi e un pezzo di legno: quanto bastava per sistemarsi sul freddo di una Croce. Sono secoli che all’amore si ama corrispondere da uomini: sono secoli che Dio s’intestardisce a dare ripetizioni di grammatica della speranza.
Suonano le campane di Pasqua: c’è forse un pizzico di gelosia in questo mattino così intriso di gioia e di colori. Più che gelosia è una dolcissima sensazione di casa che t’invade all’alba di questo giorno tutto nuovo: perchè da oggi nulla sarà più come prima per chi crede. L’urlo innamorato di quelle donne – “Abbiamo visto il Messia!” -, la corsa spensierata dei discepoli rinvigoriti, il sangue dei martiri che corre lungo i millenni, gli accadimenti interiori che solcano le terre degli uomini sono semplicemente l’ultimo capitolo di una storia che mai ha cessato di lasciarsi condividere per potersi moltiplicare. Sul davanzale della finestra, più che un augurio oggi troviamo la sfida delle sfide: un invito a non rassegnarci. Perchè tutto il Vangelo prepara alla Risurrezione ma non la descrive: che è come lasciarci in eredità la possibilità di assaporare nel frammezzo dei nostri giorni l’eco di una Risurrezione ch’è appena iniziata.
Il mondo parla di evoluzione, Lui parla di rivoluzione. Il motivo è presto detto: l’evoluzione è ciò che accade mentre dormiamo, la rivoluzione è ciò che accade mentre siamo svegli. Per non addormentarci da disperati.
(da Il Mattino di Padova, 31 marzo 2013)