feritoiaLa vecchia campana della pieve di Boccon di Vò (PD) suona lenta e severa, come il rincasare dei carri che ad ogni settembre lassù fanno sorridere le botti spandendo profumi e nostalgie. Sul sagrato campeggia il silenzio attonito della gente di paese: la stessa che popola osterie e taverne, chiese e trattorie, scuole e palestre scruta il cielo nevoso per chiedersi “perchè”. E’ il saluto di una piccola comunità a Michele, un giovane ragazzo-sposo-padre che ha prematuramente salutato la vita di quaggiù: il rintocco della campana, il peso delle lacrime, il fremito di cuori inquieti. E’ il tutto che rimane: nulla c’appartiene.
Dietro ogni suicidio campeggia un gomitolo di emozioni: fili di gioia che inevitabilmente s’intrecciano con i fili della malinconia, giorni di luce popolati da ore di notte, voglia di vivere attorcigliata alla mestizia della morte. La vita umana non prevede delle prove iniziali: è allo sbaraglio del pubblico che l’uomo e la donna affinano l’eleganza. Loro partono all’improvviso: a chi rimane spetta l’arduo compito della ripartenza. Partono dopo averci pensato, moltiplicato la gioia per l’amarezza, sottratto all’angoscia le ore di consolazione, separato l’ansia dalle aspettative. Come saette guizzanti da un capo all’altro del cielo, partono per un viaggio senza ritorno, lasciando tra le vie del paese quel senso d’umano fallimento che ancor oggi diviene l’angoscia di molte giovani esistenze. Perchè in un mondo in cui tutto è pensato per attrezzare l’uomo e la donna a vincere, c’è qualcuno che invece cercava strumenti e volti capaci magari di insegnargli a gestire il peso di una sconfitta. O, semplicemente, a raccontargli che dietro ogni grande scoperta della storia c’è da sempre la radice di un fallimento. Paul Erlich scoprì la cura contro la sifilide dopo aver fallito precedentemente seicentosei volte. Si racconta che Thomas Edison, milleduecento scoperte all’attivo, abbia effettuato oltre cinquemila esperimenti negativi prima di mettere a punto una lampadina funzionante. Leonardo da Vinci ed Albert Einstein furono considerati dei buoni a nulla dai loro maestri. Il padre di Pascal gli nascose i libri di matematica e lui non si diede per vinto: un giorno arrivò ad inventare la calcolatrice. Pure la Scrittura Sacra racconta storie di insuccesso e di sconfitta, necessarie al popolo per imparare a vincere.
Il volto di un giovane è un laboratorio di speranze, piccole speranze – un amore appagante, un posto di lavoro, un presente da protagonista – che quando si realizzano mostrano all’uomo che ha bisogno di una speranza che vada oltre, che gli accenda il desiderio di infinito per permettergli di reggere il peso del presente: nostalgia di un pezzo di cielo al quale agganciare le tristezze del quotidiano. Nella lettera di un giovane ergastolano, l’altro giorno una madre ha letto: “sono felice mamma, domani mi cambiano di cella: mi spostano in una che ha una grossa fessura in fondo. Finalmente domani sera potrò contemplare un pezzo di cielo”. Quel pezzo di cielo che Michele sognava nella sua giovane vita. Che sia offuscato di nuvole o popolato di stelle, volgente al nevischio o certo del sole poco importa: un pezzo di cielo talvolta è la discriminante tra la disperazione e l’angoscia, l’attesa e la stanchezza. Tra vivere e morire.
In ogni morte giovane c’è sempre una speranza pronta a riaccendersi: una bufera può cancellare un fiore non l’intera primavera canta Eros Ramazzotti. A noi basterebbe – in calce alla tomba o sul fondo della pieve – amare un po’ di più la vita e usare un pizzico di misericordia in più contemplando nel volto i nostri fallimenti. Perchè nessun giovane possa sospettare d’essere morto invano.

(da Il Mattino di Padova, 9 dicembre 2012)

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