trasporto

Come bestie da macello. Con in allegato la sconvolgente certezza che per taluni uomini la società non chiede tanto una meritata giustizia quanto una più squallida vendetta. Lungi dal giustificare il male da loro commesso nella vita all’infuori delle sbarre ma convinti dell’importanza di comprendere il perchè di un gesto compiuto, stavolta il carcere s’è mostrato per quello che è: un assassino dei sogni, come lo definisce qualcuno dall’interno del gabbio. La notizia è tanto scarna quanto scoraggiante per chi ogni giorno s’appresta a scommettere su una possibile risurrezione dell’uomo: tutti i detenuti in regime di alta sorveglianza a breve potrebbero essere destinati ad occupare – come ammassi di carne umana – le celle che si stanno aprendo nell’isola di Sardegna. Non basta più sistemare il carcere fuori dalle mura di una città, adesso occorre isolarli e chiedere al mare di fare da scudo perchè la società apparentemente possa dormire sonni più tranquilli.
Tra di loro c’è chi a Padova ha intrapreso un programma di studio, chi s’è sistemato l’ultimo brandello di speranza rimasta alla bell’è meglio nella ristrettezza di una cella, chi si sforza da oltre vent’anni di non confondere la luce dell’abat-jour con quella del sole, chi se ne sta aggrappato come foglie autunnali a quell’esile alfabeto degli affetti che da fuori rilancia la sua eco. La maggior parte di loro ha una sola certezza: quella di non uscire mai più dal carcere perchè il giorno della loro liberazione è “mai”. La giustizia li ha dichiarati colpevoli di fronte alla legge, il volontariato umano ha offerto loro la possibilità di diventare uomini migliori in questa terra d’esilio. Guardo i loro volti spaesati e angosciati e temo che nei loro alberi genealogici scorra il sangue della discendenza di Sisifo, il leggendario eroe della mitologia. Come punizione per la sagacia dell’uomo che aveva osato sfidare gli dei, Zeus decise che Sisifo avrebbe dovuto spingere un masso dalla base alla cima di un monte. Tuttavia, ogni volta che Sisifo raggiungeva la cima, il masso rotolava nuovamente alla base del monte. Ogni volta, e per l’eternità, Sisifo avrebbe dovuto ricominciare da capo la sua scalata senza mai riuscirci. Un po’ il destino di questa “mia” gente: ad ogni trasferimento si ricomincia sempre daccapo. Con il tremendo sospetto che quando sul fondo del binario morto della loro esistenza una fioca luce faccia capolino, ci sia qualcuno che si diverte a spegnerla per farli ripiombare nell’oscurità. Basterebbe varcare le porte di una galera per convincersi che la leggenda della rieducazione carceraria è la traduzione militare della favola di Babbo Natale che fra poco racconteremo ai bambini. Come è possibile una rieducazione se ogni qual volta s’intraprende un cammino c’è qualcuno che blocca la strada e costringe alla resa? Qualcuno, con molta finezza, è andato oltre negli interrogativi: com’è possibile parlare di rieducazione in una società poco educata? Interrogativi che per i samaritani laici e credenti che ogni giorno s’affacciano sulla soglia di quelle anime solcate dal male hanno un sapore amaro, perchè sembra di essere pure loro condannati a vedere la primavera sul punto di sbocciare e avvertire l’angoscia di un’ondata di gelo capace di distruggere i teneri germogli.
In galera ci sono zone che sembrano stanze per partorienti: avverti i vagiti di nuove nascite, contempli l’emozione di volti tornati bambini, ti stupisci del miracolo della vita. E ci sono zone che somigliano a celle mortuaria in attesa dell’arrivo del carro funebre. Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, rimbomba l’eco di Agostino: il male va estirpato perchè è opera dell’uomo, l’uomo va redento perchè è opera di Dio. Nemmeno in carcere è concesso a qualcuno di fare della vita dell’uomo una stucchevole partita a scacchi.

(da Il Mattino di Padova, 18 novembre 2012)

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