Secondo il calendario in uso presso le popolazioni celtiche, l’anno iniziava il primo novembre, giorno che coincideva con la fine della stagione calda, celebrata la notte del 31 ottobre, con la festa di Samhain: per un popolo fondamentalmente agricolo, dunque legato ai tempi che l’agricoltura impone, l’arrivo dell’inverno era associato all’idea della morte, simboleggiata dalla terra spoglia. Nell’VIII secolo, Papa Gregorio III spostò la festa di Ognissanti dal 13 maggio al 1° novembre, per creare continuità nella liturgia nei confronti della commemorazione dei defunti (quasi come se una festa sia spiegazione dell’altra, ma anche incitamento per tutti a seguire l’esempio dei santi, persone che sono riuscite a dare felice compimento al proprio esistere) ma anche per contrastare varie forme di paganesimo associate ai riti di Halloween.
Per capire i motivi dell’incompatibilità di questi riti, basti pensare, ad esempio, alla genesi della tradizione della famosa zucca, che, svuotata e riempita con una candela, è ormai diventata universalmente il simbolo di Halloween. Si tratta infatti del ricordo della leggenda di Jack O’Lantern.
Jack, un fabbro astuto, avaro e ubriacone, un giorno al bar incontrò il diavolo. A causa del suo stato d’ebrezza, la sua anima era quasi nelle mani del diavolo, ma, astutamente, riuscì a far trasformare il diavolo in una moneta promettendogli la sua anima in cambio di un’ultima bevuta. Jack mise il diavolo nel suo borsello, accanto ad una croce d’argento, cosicché egli non potesse ritrasformarsi. Allora il diavolo gli promise che non si sarebbe preso la sua anima nei successivi dieci anni e Jack lo lasciò libero. Dieci anni dopo, il diavolo si presentò nuovamente e Jack gli chiese di raccogliere una mela da un albero prima di prendersi la sua anima. Al fine di impedire che il diavolo discendesse, il furbo Jack incise una croce sul tronco. Soltanto dopo un lungo battibecco i due giunsero ad un compromesso: in cambio della libertà, il diavolo avrebbe dovuto risparmiare la dannazione eterna a Jack. Durante la propria vita commise tanti peccati che, quando morì, rifiutato dal paradiso e presentatosi all’Inferno, venne “cordialmente” scacciato dal demonio che gli ricordò il patto ed era ben felice di lasciarlo errare come anima tormentata. All’osservazione che era freddo e buio, il demonio gli tirò un tizzone ardente (eterno in quanto proveniente dall’Inferno), che Jack posizionò all’interno di una rapa che aveva con sé. Cominciò da quel momento a girare senza tregua alla ricerca di un luogo di riposo sulla terra. Halloween sarebbe dunque il giorno nel quale Jack va a caccia di un rifugio. Gli abitanti di ogni paese sono tenuti ad appendere una lanterna fuori dalla porta per indicare all’infelice anima che la loro casa non è posto per lui. Quindi, inizialmente, la verdura utilizzata come lanterna era la rapa. Successivamente, però, a causa della grande “carestia delle patate” in Irlanda, moltissimi irlandesi emigrarono in America, sostituendo alla rapa la più diffusa zucca americana.
Una festa di origine celtica, radicata nella cultura anglosassone, parzialmente sradicata con l’avvento del cristianesimo, dunque. Che pare però aver ritrovato slancio e vigore ai giorni nostri: ai tempi della globalizzazione (troppo spesso a senso unico), pare che tutto ciò che sia di provenienza a stelle e strisce risulti particolarmente appetibile e – soprattutto – facilmente commercializzabile. Con la sottolineatura che il popolo americano (spero non mi si tacci per questo di razzismo, poiché mi pare si tratti semplicemente di una constatazione storicamente riscontrabile) non ha in realtà vere e proprie radici: non è solo il simbolo, ma l’effettiva realizzazione di un melting-pot di razze, etnie e culture. Del resto, non è sbagliato affermare che gli americani autoctoni sono solo i discendenti dei nativi americani, cioè dei pellerossa, quegli stessi che sono stati allontanati con la violenza dai propri territori fino a confinarli nelle riserve.
Tuttavia, in Italia sbarca con il formato “made in USA”: entrato nelle case attraverso telefilm con immagini accattivanti come la zucca svuotata e travestimenti spaventosi, ma raffiguranti personaggi intriganti per i ragazzini (vampiri,streghe, scheletri…), continua la sua folle corsa nel Bel Paese introducendo, anche in luoghi senz’alcuna simile tradizione, l’usanza per i bambini di bussare alle porte con l’alternativa “dolcetto o scherzetto?” e, per i più grandi, feste a tema. Questo nel migliore dei casi, naturalmente. Tante volte, purtroppo, questa festa diventa l’alibi per “trasgredire” e andare oltre quei limiti che, travalicando il divertimento, si avvicinano all’autodistruzione. Non solo: tutta questa esaltazione del maligno, con o senza maiuscola, resta comunque potenzialmente pericolosa, perché porta, inevitabilmente, ad abituarsi a ciò: il rischio è quindi quello di trovarsi “indifesi” di fronte al male, perché ormai assuefatti. Sarà forse utile ricordare, del resto, come questo periodo dell’anno sia particolarmente utilizzato dalle sette per profanazioni e riti satanici, a riprova del fatto che questa festa sia in sostanza un cavallo di troia innocuo solo in apparenza.
Parlare della morte, per esorcizzarla. Così spiegherebbero gli psicologi. Niente di strano, insomma.
Tuttavia, è evidente che si tratti di un paradosso. In una società che è intrisa dall’apporto culturale del cristianesimo, possibile che manchi il mordente o la capacità di lasciare il segno in misura tale che il senso offerto alla vita non basti più?
In realtà trovo che sia assolutamente sensata la “sostituzione”, avvenuta centinaia d’anni fa, tra questa festa e quella di Ognissanti: sono inconciliabili proprio a motivo del loro significato. Se la prima è il ricordo di un patto col Diavolo per sfuggire all’Inferno e vagare senza meta, senso e direzione, la seconda è la commemorazione di un patto con Dio per rendere piena, felice, gioiosa, ricca di significato e ben direzionata la propria vita. Perché di questo si tratta.
Basti pensare alla varietà di santi che si sono susseguiti lungo la millenaria storia della Chiesa, unendoci la certezza (o speranza) che la schiera dei santi sia con ogni probabilità anche molto più numerosa di quelli ufficiali (canonici), ricordati dal calendario e dalla liturgia. Tante sono le condizioni in cui i santi hanno vissuto la propria vita, tante le esperienze fatte, tanti gli stati di vita (sposi e spose, vedovi e vedove, consacrati, religiosi e religiose e sacerdoti, mamme, nonni, padri di famiglia oppure professionisti stimati nel proprio lavoro) tramite i quali hanno speso i loro giorni. Possiamo ricordare monaci di clausura, missionari, vedove benestanti, re, madri di famiglia come anche tanti sacerdoti, che spesso hanno deciso di spendere la propria vita proprio scommettendo su quelli su cui nessuno avrebbe mai puntato nulla (penso a don Bosco, ma non è certamente il solo).
Nonostante esista una scelta di diverso tipo, quella maggioritaria è mortifera, lugubre, tetra. Di fronte alla luminosità di figure positive, che “ce l’hanno fatta”, che hanno dato un senso alla propria vita, riempiendo di esso ogni singolo giorno, si preferisce affrontare la notte, riesumare paure ancestrali e celebrare il compromesso, vittime forse – semplicemente – di consumismo e scarsa informazione.
“Siate santi, perché Io sono santo” (Es 11, 45). Eppure, ancora oggi, la santità spaventa, tanto che resta una scelta che suscita scalpore, perplessità, persino timore. Qualcosa di impossibile da desiderare, perché fuori portata, di difficile realizzazione. Un impegno sovrumano, che richiede di abbandonare l’umano per indossare una veste estranea, per obbedire a un Dio che pretende qualcosa di faticoso e spossante, senza un vero motivo, come se provasse gusto a metterci in difficoltà.
“Un santo triste è un tristo santo” suggerisce la saggezza popolare. E davvero la gioia è il sintomo fondamentale della santità, prescindendo dal quale non è assolutamente possibile avvicinarsi alla sua comprensione. I santi hanno compreso il valore della fiducia, hanno visto che c’era Qualcuno disposto a fidarsi di loro, nonostante i loro errori, e non hanno fatto altro che riversare questa fiducia nei confronti degli uomini che incontravano, di modo da diffondere quella fede che è ancora più difficile della fede in Dio: la fede negli uomini!