Lavoro nella vigna 2resize«Gli ultimi saranno i primi». Una di quelle frasi, provenienti dalla Bibbia, ma entrate prepotentemente nel parlare comune, dopo essere state depotenziate fino ad arrivare ad un’interpretazione più libera ma certamente più misera (non dal punto di vista etico, beninteso, ma semplicemente da quello del significato!). Basti pensare che una frase del genere è persino abusata come goffa giustificazione per i ritardatari cronici, a disagio per l’ennesimo ritardo. Detta così, non è che una frase carina e innocua, perfetta per strappare un sorriso di fronte alla propria inadempienza e indurre chi attende a pazienza e clemenza; a prima impressione, del resto, sembra una frase del tutto innocua e priva di rischi, perfetta per suscitare facili e immediati consensi. Tuttavia, reinserito con correttezza nel proprio contesto, la frase perde la sua innocenza, riacquistando integralmente la sua problematicità.

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi?” Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”» (Mt 20, 1 – 16)

Riecheggia probabilmente nella mente un commento che fa il paio a un famoso passo di Isaia, di fronte a un finale tanto inatteso e sorprendente della Parabola (“I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le mie vie non sono le vostre vie” Is 55,8). Un finale che farebbe storcere il naso non solo a economisti o imprenditori, ma anche semplici massaie, abili a far quadrare i conti dell’economia domestica. Impensabile, del resto, trovare simili proposte sulle bocche di Camusso, Bonanni, Angeletti e altri compari della stessa specie. Contro ogni logica umana di ogni tempo.
Una vigna, presso la quale spendere il proprio tempo e la propria fatica quotidiani. Un padrone. Alcuni operai, pagati a fine giornata. Ma chiamati ad ore diverse della giornata: alle 9 (ora terza), alle 12 (ora sesta), alle 15 (ora nona), alle 17 (ora undicesima). Ecco gli ingredienti per una parabola destinata a dividere e creare discordie.
Varie sono le interpretazioni, o – meglio – varie le angolature con le quali è commentata questa parabola. Mi fa sorridere, però, notare come ci si affretti – con un certo affanno a precisare subito come questa parabola, volendo mostrare con una metafora il Regno di Dio, non possa essere interpretata in modo letterale: sembra quasi che s’avverta l’impellente necessità di “raffreddare” l’ardore della Parola, ogni qualvolta osi mettere in discussione le nostre labili, umanissime e fallibili certezze.  Forse, proprio per questo, la prima domanda che mi viene è: siamo così sicuri che questo brano si riverisca esclusivamente al Regno dei Cieli? non ha nulla da dire all’uomo che vive con i piedino per terra, impastati di esigenze che toccano il qui ed ora ? Oppure si tratta solo di una scelta di comodo?
Forse per rispetto nei suoi confronti (essendo da considerare come Dio, fuori dalla metafora della parabola), ma il protagonista, nelle Parabole spesso riveste un ruolo marginale nella spiegazione, come se si trattasse di qualcosa che non ci riguardi. In quella presa in considerazione, ad esempio, l’accento è posto sui lavoranti, che sono considerati tutti i cristiani in generale e i sacerdoti in particolare, in quanto chiamati – in modo più diretto – all’edificazione del Regno di Dio. L’insegnamento da trarre sarebbe quindi, in quest’ottica, molto vicino a quello della Parabola del Figliol Prodigo: tanti sono i chiamati, ciascuno al suo momento e, di fronte al premio finale che Dio largisce, non devono avere luogo invidie o gelosie di sorta.
Trovo tuttavia ricco di spunti di riflessioni affrontare la medesima parabola tramite una prospettiva un po’ diversa.
La caratteristica forse più evidente del racconto è innanzitutto quella di essere suddivisa nell’arco della giornata in modo abbastanza preciso: il racconto inizia all’alba e si conclude al tramonto, in concomitanza con la fine della giornata lavorativa degli operai.
Si può notare la continuità del padrone nella ricerca dei lavoratori: li cerca lui in prima persona e non si accontenta di uscire solo all’alba, ma è in perenne ricerca di nuove braccia disposte a lavorare. Seconda caratteristica del padrone è l’approccio ai propri dipendenti, dal momento dell’offerta di lavoro fino a quello del conferimento della paga.
Specifico qui una premessa necessaria a ben comprendere il contesto in cui si muovono i personaggi. Era usanza comune per tutti i paesi mediterranei che gli aspiranti operai a giornata si facessero trovare in piazza, affinché i proprietari terrieri potessero agevolmente trovare manovalanza per i propri campi e frutteti, nei periodi di lavoro più intenso.
È facile immaginare che, se il padrone, nelle sue successive uscite, trova ancora persone sfaccendate, è per il semplice motivo che prima non c’erano, quanto meno non erano in piazza. Ritardatari, appunto. Magari perché hanno tirato tardi durante la notte, come capita spesso ai giovani, non riuscendo poi ad alzarsi all’alba il mattino successivo. Eppure, questa caratteristica non è rimarcata con supponente indelicatezza; solo agli ultimi domanda perché fossero ancora lì oziosi e, alla loro triste constatazione di non essere ancora stati scelti, la domanda del padrone si muta in invito a non sprecare la giornata, ma a venire  a lavorare per lui. È interessante notare questo modo di rapportarsi. A nessuno sono rivolte accuse o mortificazioni, ma solo l’invito ad essere operosi. Nulla a che vedere con l’infelice uscita del ministro Fornero; infelice quanto meno per la manifesta incapacità di leggere la realtà scendendo dalla propria postazione, inevitabilmente privilegiata. L’impressione è che, di fronte alla disoccupazione, prevalga talvolta una visione di questo tipo, spesso parziale e gonfia di pregiudizi, distaccata, distante e priva di empatia. Tutto l’opposto, insomma, di quello che troviamo nel bozzetto del padrone della vigna che l’evangelista ci dipinge!
Penso, infatti, che non sia solo per ragioni di brevità se l’unico commento del padrone, di fronte alla frustrazione degli ultimi operai chiamati, sia una fiduciosa offerta di lavoro, quale soluzione al loro ozio forzato e riscatto sociale possibile, concreto e alla loro portata. Non sottolinea l’ignavia, la pigrizia o magari una vita dissoluta che hanno contribuito al loro rimanere nullafacenti. Propone, invece, con fiducia, un’alternativa; cominciando, lui per primo a ritenerla realizzabile.  Alle volte, quello che blocca una possibile svolta è proprio la mancanza di fiducia. Più che di altre cose, infatti, un giovane ha bisogno trovare qualcuno che sia disposto a condividere empaticamente una fatica, un disagio (che non significa qualcuno che faccia le cose al suo posto, ma che sia in grado di considerare importante ciò che per lui è tale) e conceda fiducia ancora una volta, anche se non se lo merita, anche e soprattutto quando è più difficile farlo.
Finisce dunque la giornata lavorativa degli oprerai e giunge il momento della paga, che stravolge convinzioni e convenzioni dei lavoratori. Anche in questo caso è importante una sottolineatura. Il fatto che parta dagli ultimi, dando loro un denaro, porta i primi a pensare che avrebbe dato di più a chi aveva sopportato la fatica della giornata; il padrone tuttavia è rimasto perfettamente fedele alla Parola data, dal momento che il compenso promesso ai primi era di un denaro. Quanto agli altri, non risulta che in seguito sia stato pattuito il quantitativo del compenso: la promessa di ricevere “il giusto” è, per questi, sufficiente per iniziare a lavorare nella vigna.
Mi piace pensare che possa essere proprio questa fiducia nella parola ricevuta a spingere il datore di lavoro a distribuire a ciascuno la medesima paga, indipendentemente dal numero di ore. In questo modo, il “cerchio della fiducia” si chiude: apertosi con la fiducia data dal padrone ai ragazzi che non erano in piazza all’alba, si chiude con il ricevimento della paga, compenso alla fiducia incondizionata posta dai lavoranti in chi, con il lavoro, aveva concesso loro una possibilità di rivincita.
Senza dover aspettare il giudizio universale, ogni giorno ci offre la possibilità di accogliere il “giusto” che riceviamo come un’opportunità e una risorsa da sfruttare per quello che è, invece di vedere “fregature”, anche quando non ci sono!

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