Preludio. Parole di un Camminatore
Le mani di lei profumano di sapone e di minestra: sono le dita splendide di una giovane ragazza diventata presto donna. Le mani di lui sono impastate di grasso e annerite dall’olio: sono le mani di un giovane tornitore all’opera. La loro storia, fosse un romanzo: potrebbe tenere come titolo Controvento e senz’olio. Storia di due ragazzi di periferia. La somma delle loro anagrafi è cinquantasette anni, quella dei loro stipendi sfiora i 1650 euro lordi. La prima volta che lui l’ha vista le ha lasciato un biglietto in calce al portone di casa: “il mio cuore stasera è in festa”, parole pulite di un ragazzo di paese. Lei quella sera si coricò felice, felice d’essere stata notata nella sua semplice bellezza. Lui e lei, una straordinaria storia d’amore fatta di piccole gioie quotidiane: l’erba da tagliare e il giardinetto da curare, i soldi da centellinare e piccoli sogni da condividere, la spesa del sabato pomeriggio assieme e la domenica a passeggiare nei sentieri. Erano cresciuti ma il profumo dei loro campi era rimasto dentro al cuore. Felici d’essere stati l’un per l’altro un gancio in mezzo al cielo: due anni di fidanzamento e il matrimonio. Una chiazza di colore nel ghiacciaio del quartiere.
“Ciao Francesca, c’avrei una cosetta da dirti”: l’amica che chiede d’essere accolta in casa. E lei le apre, festante come le donne nate col sorriso sulle labbra. Lei la guarda, anzi la punta dritta nello sguardo: lo sguardo appannato, i lineamenti di un segugio, la voce addestrata ad arte.
“C’ho il sospetto…”. Stop: i lineamenti dello sguardo e l’andirivieni della bocca fanno il resto. Non ha detto altro: ha lanciato la sfida. E se n’è uscita.
Francesca si guarda le dita che profumano della minestra che stava servendo: le scende una lacrima: “davvero?”. Eppure non c’erano prove, quell’umile tornitore non meritava tanto: colpevoli d’amarsi. Lui e lei, lei e lui: lo strazio di due giovani condotti sul ciglio della disperazione e lasciati in balìa del nulla. Lei lo guarda appena rincasa: è ancora nascosto dentro la sua tuta da lavoro. Lui la guarda abitato dal sorriso: lei è ancora teneramente bella. Bella, seppur con quel pensiero lancinante nel cuore a striarle quel viso da bambina invecchiata. Tra di loro il tavolo. Col sospetto di una viandante di passaggio.
(tre settimane dopo)
“Don, dobbiamo parlarti”: una telefonata secca, diretta, straripante. Nulla a che vedere con la dolcezza amabile di altre chiamate. Quando m’incontrano piangono come due bambini: non si danno pace, qualcuno ha rovinato loro il romanzo più bello: quello che in calce raccontava la loro avventura d’amore. Piangono come piange la gente povera e dignitosa: col rossore sul volto, le mani strette a pugni, gli sguardi che non cessano di incrociarsi.
Quella sera, appena dietro l’angolo di quel palazzo, me li sono stretti forte. Eppoi ho lanciato loro un invito: celebriamo assieme la messa. Entriamo in punta di piedi, come viandanti stanchi e sfiduciati. Non si tengono per mano.
Lui li aspetta: c’avrei giurato che non poteva non farsi trovare quella sera. Proclamo il Vangelo: parla di grano e di zizzania, di un seminatore e di un nemico. Della bellezza di un campo che la zizzania non riuscirà a deturpare. Ho tentato la predica, mi è fallita quando li ho visti piangere e abbracciarsi. Mi son seduto e L’ho guardato: “sei grande, Maestro”. A messa finita ci siamo abbracciati come bambini dopo una gigantesca vittoria: la Bellezza aveva sconfitto la Menzogna. Perchè il Nemico ha sempre le ore contate: pensa di aver la vittoria in pugno e Lui, perdutamente Dio, gli lascia l’illusione. Ma al minuto finale gli piazza il contropiede che rovescia la tranquillità. A lui, stavolta.
Capisci, te. Quei due ragazzi erano colpevoli d’amarsi nella semplicità.
Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: «Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?». Ed egli rispose loro: «Un nemico ha fatto questo!». E i servi gli dissero: «Vuoi che andiamo a raccoglierla?». «No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponételo nel mio granaio».
(Dal Vangelo di Matteo, 13, 24-30)
Primo quadro. C’è un uomo che semina
Un campo che trabocca del colore dell’oro: questo vedono i discepoli oramai condannati a scrutare i particolari. Eppure dietro al campo c’è di più: c’è un uomo che s’è messo all’opera per ripetere il miracolo della creazione. Nella stalla – magari riposto dentro un contenitore di latta pieno di ragnatele – c’erano dei semi di grano. Ha deciso di investirli, con senno e sapienza contadina. Non ha scelto il primo seme: l’evangelista precisa che ha seminato del buon seme. Non improvvisa chi conosce le stagioni della terra: lascia riposare la terra, ne ara i solchi, ne spiana le zolle (come canta beatamente il salmista) e solo dopo vi getta del buon seme. Quando rincaserà nella stalla, sarà l’inizio della grande fatica: l’attesa e la fiducia che la terra faccia la sua parte. Inutile correre nel mezzo del campo, cercare di tirare per le orecchie la semente, forzare la spiga a nascere. L’attendere sarà la misura della sua ambizione. Stavolta il contadino ha fatto tutto bene, tanto bene che sale sul palcoscenico di questa parabola e il Narratore di Nazareth gli fa fare la sua bella figura. Dopo la fatica, il sonno del contadino: il Creatore volle che della vita facesse parte anche il sonno. L’uomo ha seminato e la sua gente dorme: lui doveva seminare e ha seminato. I suoi uomini di giorno hanno badato il campo e ora, scesa la notte, dormono.
Dormono loro ma non dorme il Geloso: conosce gli uomini a menadito – abitudini, tradizioni e pensieri – ed entra in scena puntuale. Bastardissimo nella sua precisione e arguto nella sua faccenda: non strappa ciò che l’uomo ha seminato ma vi aggiunge del suo, semina la zizzania. Non è una colpa se l’uomo dorme: è quello il tempo che il Creatore ha stabilito per il riposo, lasciando però anche spazio al Nemico. E lui ne approfitta: ad osservarlo nel mezzo della notte, ricurvo e con le mani a spazzolare le sementi, verrebbe quasi da confonderlo con il seminatore: i movimenti sono gli stessi, il seme è diverso. E solo quando verrà il momento in cui germoglieranno questi semi, si potrà vedere che a quest’opera di seminagione hanno partecipato due figure diverse. Semina e scappa, un mordi e fuggi lacerante: gli è riuscito di sporcare i lineamenti della buona semina. Guardalo che zimbello: scappa per restare ignoto, ha paura d’essere smascherato, teme lo sguardo di Lui. Il seme suo può stare assieme a quello del seminatore ma il Nemico non potrebbe reggere lo sguardo del Creatore. E scappa, per questo deve agire di notte, di nascosto, proprio come quel ladro al quale è spesso paragonato. Anche nel Giardino degli inizi il serpente sgusciò fuori in un’ora in cui Dio non camminava per il Paradiso. Quel che il Creatore poi vi trovò erano persone bramose di fuggire, che si nascondevano. Il serpente era sparito, quasi avesse un diritto sulla notte.
Nel campo la vita s’è complicata: l’opera è fatta e resta, come è fatta e resta anche l’opera del seminatore. Resta tuttavia il mistero di questo nemico che semina indisturbato: nel campo c’è un pezzo di terra anche per il suo seme. Che ha un nome strano: zizzania. Già il nome infastidisce per la sua durezza: è una pianta infestante, la conoscete tutti. E’ colei che manda all’aria settimane di lavoro di chi ha la passione dell’orto o di chi lavora la vite. Grano buono ed erba malvagia nel Vangelo convivono proprio come in mezzo al giardino di casa tua: sgomitano per dividersi la terra. E nessuno se n’era accorto finchè non nasce il frutto. Pensa: lo stesso tempo che è stato richiesto dal buon seme per crescere è lo stesso tempo che è servito alla zizzania per fare capolino sulla terra. Sotto terra si sono spartiti le zolle, si sono addossati l’un l’altro i vermiciattoli, se le saranno date di santa ragione. A null’altro è servito se non ad uscire e presentarsi sul palcoscenico della storia – e della parabola – ognuno col suo vestito.
Da 39mila metri d’altezza la Terra è un punto terribilmente lontano. Felix Baumgartner per un istante ha tenuto tutti col fiato sospeso perchè morte e vita spesso s’incrociano laddove l’uomo si mette nudo di fronte allo spazio, al tempo, alla Vita. Per oltre quattro minuti quell’uomo era simile ad un piccolissimo punto vagante nello spazio, come quei sassi di montagna che i bambini lanciano dal ciglio di un ponte per poi contare i secondi che impiegano a toccare terra. Forse qualcuno si sarà chiesto il motivo di tutto quel rischio. Forse perchè spingersi lassù, dove l’uomo avverte la sua nullità al cospetto degli astri e dello spazio, è speranza di tornare quaggiù con una più accesa nostalgia della vita. La liturgia d’inginocchiarsi e di baciare la terra appena dopo averla lambita è stato il gesto commovente di un uomo che, dopo averla sfidata, non trova di meglio che abbracciarla e stringerla forte a sé, con rinnovata freschezza. Gli hanno chiesto che cosa si provi a tuffarsi dal trampolino dell’Universo. La sua risposta è stata lapidaria: “quando sei lì in piedi in cima al mondo, diventi così umile che non pensi più a battere record. L’unica cosa che vuoi, è di tornare vivo”. E’ sempre la vita il primo e l’ultimo pensiero, la cornice dalla bellezza fugace e mortale nella quale ogni volta incastrare le nostre fotografie. Quella voglia di vivere che un giorno t’inabissa nel cuore l’idea di accarezzare l’estremo fin quasi a sfidarlo per celebrare la grandezza dell’uomo: “in tutti noi c’è una forza che ci spinge a non riposarci mai, fino a quando non possiamo andare un po’ più in là” – ha dichiarato citando Jean Piccard, esploratore di abissi oceanici. C’è un’ansia che accomuna esploratori e naviganti, arrampicatori e naufraghi, timonieri e viaggiatori, santi e delinquenti: è quell’istinto micidiale ad andare oltre, un passo più in là, un centimetro dopo. E’ una voce forte, incuneata nelle profondità dell’umano. E’ stata la vera conquista di quest’uomo volante: “a volte bisogna andare veramente in alto, per capire quanto siamo piccoli”. Con buona pace del Piccolo Principe stavolta l’essenziale s’è mostrato proprio davanti agli occhi. Non la sfida fine a se stessa, ma l’umile riconoscimento della propria piccolezza. Che è d’invisibile bellezza.
Anch’io come i servi della parabola vorrei chiarezza, vorrei far vincere subito il bene, vorrei credere in un Dio che bruci i delinquenti e premi la gente buona (io, ovviamente, sono dalla parte dei buoni: che discorsi!). E invece Dio ti trattiene la faccia per terra e ti fa capire che anche dentro di te il grano e la zizzania crescono assieme. E la sua voce t’inchioda: “don Marco, abbi pazienza! Lascia fare qualcosa anche a me”. E allora ti stupisci nel vedere questo Dio all’opera: ricicla, restaura, rilancia, ringiovanisce, riaccredita fiducia. Ti stupisci di quella spiga di grano che non ti chiede nulla eppure cresce: silenziosa, da sola, sgomitando con la zizzania. Ti smarrisci nel bagliore di quel cespuglio di orchidee selvatiche nate appresso ad un rovo: nessuno le vede, nessuno le coglie, eppure loro cantano: cantano e vivono! Abbi pazienza, don Marco: c’han provato in tanti/troppi prima di te a dividere il mondo in buoni e cattivi, giusti e ingiusti e spesso si sono smarriti in sentieri orribili di violenza. Lasciate che crescano! Ovverosia: abbiate un po’ di pazienza, gente! Pazienza pure se pensavi di essere un prete migliore di quello che sei, un catechista migliore, un papà migliore, una moglie migliore: è gustando l’amarezza del proprio limite che ogni tanto avvertiamo l’inedita misericordia di un Dio che ci ringiovanisce nei lineamenti. L’arcobaleno è splendido ma succede sempre ad una acquazzone. L’alba intriga il risveglio con la sua magia ma nasce sempre nel pieno dell’oscurità. Il vagito di un bambino è il più alto inno alla gioia eppure per qualche istante la mamma ha pensato di morire. Immagina se un pittore avesse cancellato la tempesta: forse avrebbe pure rovinato l’iride di quell’arco tra le nubi Cosa sarebbe successo se un visionario avesse impedito all’oscurità di scendere dopo il tramonto: forse non avrebbe neppure concesso l’alba di truccarsi e prepararsi nel nascondimento. Guarda quant’è meraviglioso Dio: permette al male di sopravvivere perchè gl’importa di non intaccare minimamente la bellezza del Bene. Come nella tua vita: lascia spazio anche ai tuoi vizi, ai tuoi difetti e alle tue miserie per non correre il rischio di intaccare qualche frammento di splendore.
Secondo quadro. I servi farebbero presto.
Hai presente quando te l’hanno combinata grossa sotto il naso e tu avverti dentro montare una rabbia mostruosa? Avessi davanti l’avversario, lo prenderesti a calci nel sedere o a pugni in faccia; ma quando non ce l’hai fisicamente cerchi di cancellarne le tracce. La pensavano così anche i servi: “Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo?” Cercano di capire loro, e giustamente vanno da Colui che un giorno disse loro: “chiedete e vi sarà dato”. Vanno direttamente dal padrone, non stanno a perdere tempo tra di loro. Essi gli chiedono: “non è che forse ce l’hai mescolata tu la zizzania, Maestro?” Capitava in Palestina che ogni tanto un uomo, per vendetta, seminasse zizzania nel campo del proprio nemico. Loro lo sanno che Lui ha in mano il quadro, loro hanno solo un angolino del quadro sotto l’occhio: è per questo che chiedono. Ad ognuno il suo compito: loro sanno discernere il grano dalla zizzania ma Lui deve spiegare il perchè di questa contaminazione: “da dove viene dunque la zizzania?” E Lui non mistifica la realtà. La racconta senza indugio: “Un nemico ha fatto questo”. Lui lo sapeva ciò che sarebbe accaduto per colpa dell’inimicizia. Figuratevi i servi, simili a quel manipolo di pescatori generosi e irruenti che Lui s’era scelto sulle sponde del Lago: “vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?”. Pratici loro, molto pratici. Più che pratici conoscevano l’arte della semina e della coltura: il contadino palestinese era solito sarchiare prima della mietitura, liberando il campo dalle erbacce. Ma Lui non cede alla fretta dell’uomo, non sembra essere preso dalla fretta quando le domande si fanno incalzanti, non fugge dalle sue responsabilità. Neppure sotto la Croce un giorno tenterà la scappatoia. Non è il temporeggiare di chi non sa come agire, ma l’umile insegnamento di chi vuole aiutare ad abitare un campo dove grano e zizzania convivono. Li invita a rimanere in battaglia, ma nello stesso tempo mostra loro anche la strada e l’ora in cui la battaglia verrà risolta. Ciò che stupisce è la risposta del padrone: “Non sarchiate la zizzania perchè non succeda che, cogliendo la zizzania, sradichiate anche il grano”. Dice no ma offre loro una spiegazione. L’idea dei servi di separare era giusta, e altrettanto giusto il fatto di non aver intrapreso nulla senza il placet del Maestro.
Tuttavia la risposta del Maestro rimane una risposta misteriosa: sebbene i servi abbiano svolto il loro compito nel modo giusto, invece del sì che si aspettano di sentire, ricevono un no: e la loro conoscenza torna a complicarsi. E’ che il Maestro guarda dall’alto e sospetta quanto maldestro potrebbe essere il modo di agire dei servi. Il bene deve essere preservato intatto in ogni circostanza: crescere insieme con il male non lo danneggerà, poiché è diverso da esso. Se si intervenisse con troppa forza verso il male, il bene potrebbe soffrirne. E’ un agricoltore strano Gesù: la conservazione del bene è per lui molto più importante dell’annientamento del male.
Pensate a quando si verifica un improvviso black out e si rimane al buio dentro la casa. E’ come piombare in un luogo sconosciuto. Cominci a camminare a tastoni e… bang!!! La porta semiaperta della cucina ti arriva dritto in mezzo alla fronte. Continui a camminare guardingo con le mani avanti per evitare altre zuccate, e pensando a come deve essere da incubo la vita dei ciechi, a forza di tastare qua e là, riesci finalmente a trovare una torcia. E la accendi. “Ohhh!”. Un piccolo fascio di luce rende tutto diverso. Adesso pensa: cosa faresti se non avessi gli occhi? Un incubo: sarebbe inutile anche la torcia.
Ho intrapreso un viaggio: seguimi!
Drinnn! Suona la sveglia: l’invidioso allunga subito il braccio per spegnerla e subito va in malumore dicendo: “Io mi devo svegliare alle sette, invece gli altri possono dormire fino alle otto”. Poi davanti allo specchio: “Guarda che capelli stupidi. Invece Greta, Francesco, Silvia. Guarda che occhi, guarda che denti! Invece Michela, invece Federica, invece Lucia. Già, Lucia. Quella oltre ad essere bella ha anche un bel nome. Io invece mi chiamo Antonello: un nome più scemo i miei genitori non potevano darmelo”. Poi va in cucina per la colazione. Il papà è già in strada per lavoro, la mamma gira strillando: Muoviti, sbrigati che è tardi”. “Che disgrazia – mugugna tra se’ – avere dei genitori così e immagina le case degli altri dove la colazione è come nella pubblicità del Mulino Bianco: papà e mamma allegri, gioiosi, sorridenti per le macine, per lo yogurt con frutta fresca, per il cappuccino che lascia una schiuma bianchissima sulla punta del naso. Niente fretta, niente rimproveri, niente corse”. Poi esce di casa. Qui cominciano i tormenti più strazianti. Tutti hanno un corpo più bello e più snello del suo. Tutti hanno scarpe, jeans, orologio più belli e alla moda dei suoi. Tutti hanno voti più alti, interrogazioni più facili professori dalla loro parte. E poi: “Guarda quello che bella ragazza si è trovato. A me non fila nessuna. Guarda quella che fusto. Invece io: con questi cuscinetti sul fianco, con questi capelli, con questo naso…”. La giornata è appena all’inizio, ma questo è già scontroso, depresso, strano. A questo punto ha due possibilità: o si chiude in se stesso e fa la vittima, oppure diventa un seminatore di veleni. “Lo sai che quello li ha fatto questo?. L’hai saputo? Non l’hai saputo. Ma se lo sanno tutti. Quello li ha fatto quest’altro. Si, se te lo dico io vuol dire che è vero” Sbaglio? L’invidioso è come se avesse una vipera dentro che gli impedisce di essere contento della sua vita e di quella degli altri. Da lui non sentirai mai un complimento vero, una gioia sincera, un grazie limpido per il bene, il buono, il bello che c’è negli altri.
“La lampada del tuo corpo è l’occhio” (Lc 11,34) ebbe a dire un giorno Gesù, come al solito fortissimo e attualissimo. A sentirlo parlare, ti giri perché sembra sia parlando di noi. Sembra stia osservando con noi quelli dalla pelle chiara che vogliono la pelle scura, quelli con i capelli neri che li vogliono biondi, quelli bassi che vogliono diventare alti, quelli con i seni piccoli che li vogliono grandi E tutti a gridare: “Evviva gli altri. Abbasso noi stessi”. Come gli altri. A tutti i costi! Con tutti i mezzi! Anche con le pasticche, anche con le siringhe, anche con i bisturi. Anche a costo di rimetterci la salute! Però hai ragione: porta qualche frutto! La depressione galoppante, anoressia e bulimia in crescita, malumore e scontentezza dilaganti, arrivismo devastante. Tristi e arrabbiati col mondo. Scontenti di sé perché non si è come gli altri, scontenti degli altri perché non sono come noi. E tutti a desiderare la casa, la macchina, la donna, l’uomo, l’abbronzatura, il corpo, la carriera degli altri.
Esci e semini zizzania. Il motivo? Il solito: geloso della Bellezza.
Terzo quadro. Quell’imperativo che complica la sicurezza
La zizzania nel campo è opera di un Nemico; permettere che la zizzania e il grano crescano assieme è una precisa volontà del Padrone. “Lasciate che crescano, che maturino”: c’è in ogni cosa un tempo grazie al quale maturare senza ricevere interventi dall’esterno. La novità della parabola sta qui, in questo comando del tutto inatteso e accompagnato da una spiegazione non priva di una certa ironia: “perchè non abbiate a distruggere il grano assieme alla zizzania”. Il bene e il male, i santi e i peccatori, i delinquenti e i martiri crescono assieme, in un groviglio di fili dentro il quale il bene s’intreccia inevitabilmente col male. Non mancano nemmeno i servi zelanti che se ne scandalizzano e vorrebbero correggere la tolleranza di Dio. E’ un tempo di attesa e di ansia. Solo dopo viene l’altro tempo: quello del raccolto: “cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla”. E i mietitori sono già con la falce in mano: basta una parola ed essi, che fino ad allora hanno atteso nell’obbedienza, agiscono. Guarda il capolavoro della raccolta, è un’operazione a più riprese: prima la zizzania viene raccolta, legata in fastelli e bruciata. Cosicchè per un breve tempo il grano maturato bene rimarrà da solo, senza doversi scandalizzare per la compagnia della zizzania. “E’ una speranza grandiosa, un’altura della fede, una cima su cui è difficile anche respirare perché manca il fiato a pensarci. Crederla per più di cinque secondi non si può” (Erri De Luca). E di fronte all’unico biondeggiare del grano buono, sembrerà quasi che la zizzania non sia mai stata nel campo e non vi sia mai stato quel tempo di attesa nel frammezzo. “Il grano invece riponetelo nel mio granaio”. Stiano sereni i servi: la zizzania andrà a finire nel fuoco e il grano nel granaio. L’aver atteso fino alla mietitura non era indifferenza al bene o al male. Dio prende l’uomo sul serio, questa è la raccolta sicura. Lui rifiutò di costituire una cerchia ristretta di soli santi; per questo non vuole nemmeno che i suoi discepoli si assumano il compito dei mietitori. Eppure è bene che conoscano la storia per intero anche se ora, di fatto, ne vedono solo un frammento: quello nel quale l’uno e l’altra crescono assieme. Il padrone non nega la separazione: dice semplicemente che il suo tempo non è ancora giunto e che il compito di separare non spetta agli uomini.
Faceva fatica padre Pio a capire l’armonia del creato. Sua mamma gli raccontò una storia. “Una donna sta ricamando. Suo figlio, seduto su uno sgabello basso, vede il lavoro, ma alla rovescia. Vede i nodi del ricamo, i fili confusi e dice: “Mamma, cosa fai? E’ poco chiaro il tuo lavoro!” Allora la mamma abbassa il telaio e mostra la parte dritta del lavoro. Ogni colore è al suo posto e la varietà di fili si compone nell’armonia del disegno”. “Bisogna credere al giudizio universale – afferma uno scrittore – un giudizio che riporti alla luce, che riscatti gli orrori del passato, che rompa i sigilli della morte, che scopra e dica come davvero sono andate le cose” (Horkheimer).
E allora non ti resta che sederti ai bordi del campo e dire semplicemente “grazie, Rabbì”. Grazie perché non ti è ancora venuto il voltastomaco per i miei peccati. Perché continui a nutrire fiducia in me, pur vedendo che tante altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie perché non solo mi sopporti, ma mi fai capire che non sai fare a meno di me. Perché con me adoperi infinite tenerezze e mi preservi da impietosi rossori. Perché mi fai celebrare l’eucaristia anche quando la coscienza della mia povertà mi fa sprofondare nella vergogna. Grazie perché se mi fai sperimentare la povertà della mietitura e mi fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, è per dimostrarmi che mi vuoi bene, che non vuoi espormi al ridicolo di fronte alla storia. Grazie perchè continui a custodirmi gelosamente, anzi a nascondermi, come fa la madre con i figli più discoli, perché non mi svergogneresti mai davanti alla gente e non fai venire meno davanti agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, ai tuoi occhi sono prezioso. Grazie perché, anche se non capisco, continui a scommettere su di me, non mi avvilisci per le mie inefficienze, perché al tuo sguardo non c’è bancarotta che tenga, perché nonostante io le provi tutte non mi fai disperare. Anzi, mi metti nell’anima un così vivo desiderio di recupero che già vedo il nuovo giorno come uno spiazzo di speranza, tempo propizio per nuove semine, terreno su cui rischiare assieme a te.
Una sfida scontata. Ma tutta da combattere.
E allora alla fine vinceremo. Stasera quando rincasate ditelo ai vostri bambini: “Ancora un attimo di pazienza e ci siamo!” Ci siamo perchè la Vita alla fine vince sempre, da quel lontanissimo mattino tutto ebraico in cui la Vita di un Uomo, il Camminatore di Nazareth, divenne luce altissima: possente, inaudita, accecante. Tornate a casa e sorridete stasera. Guardate la zizzania attaccata sulla siepe e ringraziatela: è perchè c’è lei che amate le orchidee che avete in giardino. Domattina offrite un caffè a chi nella vita vi ha distrutto con un sospetto: è grazie a loro che avete assaporato la forza della Verità. Perchè la vita è un gioco di sementi: una buona e una meno buona. All’inizio non le riconoscete: chissà quante volte senza saperlo avrete abbeverato con i semi di girasole pure i semi della zizzania. Non lo avreste mai detto, eppure è successo proprio così. Andatene fieri e orgogliosi: senza saperlo avevate già fatto vostro il seme di questa parabola.
A Lui il mondo ha rinfacciato tutto, persino la sua Bellezza: Lui ha lasciato fare, o meglio ha lasciato che la zizzania crescesse assieme col grano. L’hanno trattato da imbecille, gli hanno confuso le carte e divisa la veste, l’hanno sfracellato su una Croce. Lui ha avuto pazienza, ha sopportato, ha lasciato che grano e zizzania crescessero assieme. Poi nella notte più buia della storia s’è alzato, ha spiegato su Gerusalemme la sua tela, ha intinto il pennello nella tavolozza dei suoi colori e ha iniziato la raccolta. Quel giorno il Nemico capì che all’Uomo dei Vangeli non è che piacesse lasciar crescere il male: semplicemente aspettava l’attimo giusto per fare in modo che il Bene potesse esplodere in tutta la sua forza.
Ditelo a chi stasera piange: “Ancora un attimo di pazienza e ci siamo!”
Potrebbe essere l’attimo che rilancia un’avventura: perchè il Nemico è prevedibile. Sopratutto è geloso: ricordatelo. Geloso della Bellezza.
Di un campo di grano o dei lineamenti di un volto non cambia.
Prossimo appuntamento
Giovedì 15 novembre 2012 (ore 20.30): “Come di chi ha talenti” (Mt 25,14-30)