L’appuntamento è appena fuori Betania. Una casa modesta in una terra modesta: terra d’ulivi e di pietre, di stelle e di pastori, una terra dove i datteri seccano sulla paglia dei granai. Il sole appena tramontato fa salire il profumo di zagara: in lontananza rincasano i pastori. Lui – all’anagrafe Gesù di Nazareth – è dentro casa, questo è il suo rifugio. La gente Gli prosciuga il tempo, Lo cercano dappertutto, la sete di Lui è devastante. Lui si concede senza misura poi, giunto a sera, “fuori tutti!”, discepoli compresi. Ha bisogno di intimità, di quel tepore amoroso che proviene dall’amicizia. Quella che Gli riservano Marta e Maria col fratello Lazzaro. Gli armenti di Lazzaro, le stoviglie di Marta, la compagnia di Maria. E Lui nel mezzo: l’ospite dolcissimo di quella casa discreta. Qui Lui è Lui, quell’Uomo amabile e affettuoso, dolcissimo e silenzioso, amante della compagnia e interessato delle gioie dell’uomo.
L’appuntamento era a Betania, nel silenzio di una casa in mezzo ad un pugno di case. Per scambiare quattro parole con quest’Uomo il cui nome ultimamente rimbomba nelle strade di Palestina.
Piacere. Mi hanno mandato gli uomini per farLe un’intervista. E’ concesso?
Per l’uomo questo e altro. D’altronde avverto che ogni tanto prova a camminare senza di Me. Io mi discosto, lo rispetto nella sua libertà, ma nessuno mi potrà mai costringere a dimenticarlo. Se un giorno ritorna mi ritroverà con un amore raddoppiato. Allargherò le braccia e gli ripeterò la mia dichiarazione d’amore: “Ti aspettavo. Siediti qui che ricominciamo”. D’altronde l’uomo è una creatura abbastanza strana (se lo dice Lui, ndr!): va amato quando meno se lo meriterebbe perché è allora che ne ha più bisogno. Adesso può capire perché Io – figlio di un carpentiere e di una Donna lavandaia – non avverto la crisi lavorativa di cui parlate: a lavorare con l’Amore ci sono sempre straordinari da mettere in conto.
L’uomo, per l’appunto. Partiamo da qui: chi è l’uomo?
Il mio capolavoro meglio riuscito, l’amico al quale un giorno mi son deciso di confidarmi raccontandogli la mia storia: la storia di un Dio che si è messo alla sua ricerca per farlo entrare in confidenza con Lui. Scusi se ogni tanto mi si aggomitola la voce: è che per l’uomo e la donna lei non osa immaginare quante notti io perda. Anche questo significa essere responsabili delle proprie creature.
Lei è ancora convinto che l’uomo sia una scommessa da giocare?
Guardi qui (e s’avvicina a Marta che sta facendo lo zabaione) Ogni volta che penso al Regno di Dio penso alla mia amica Marta quando fa lo zabaione (e Marta si sorprende di così tanta attenzione). E’ un alimento molto buono e, tutto sommato, semplice da realizzare: uova e zucchero. Ma ciò che lo rende davvero speciale è il tempo e l’energia che si spende per mescolare questi due ingredienti fino ad ottenerne una squisita crema che può guarnire molti piatti. Penso che la storia della salvezza funzioni un po’ allo stesso modo: parlare dell’Eterno all’uomo significa aiutarlo a tirare fuori il meglio di sé insegnandogli ad aprire gli occhi sulla straordinaria presenza di Dio nella sua vita, riconoscendo di essere un dono e sperimentando che il rapporto con il Signore è ciò che dà significato ad ogni attività e impegno. Tutto questo è un po’ come mescolare uova e zucchero: la vita della persona con il sogno di mio Padre. Il cristiano è colui che mescola, e mescolare, si sa, è faticoso. Per mescolare bene, inoltre, è facile sporcarsi (la traversa di Marta è piena di macchie di uova. E Marta ride!, ndr). Insomma non si può essere cristiani senza essere faticosamente in mezzo al mondo, con tanta energia e tanta pazienza, sapendo che a volte va male e spesso ci si sporca. Ma non ho mai sentito la mia amica Marta minacciare: “mi sono sporcata, non faccio più lo zabaione!”. Lei sa che lo zabaione è troppo buono per prendere paura della sua traversa sporca. Io penso spesso a Marta (e se l’accarezza quella donna laboriosa e amabile) e mi dico sempre: “l’uomo è troppo bello, non posso arrendermi”.
Uno scrittore disse che la storia dell’uomo è “semplicemente una stramaledetta cosa dopo l’altra”. Concorda?
È il rischio d’aver messo nelle mani delle mie creature l’avventura della vita: ero conscio ma la libertà era l’accredito massimo che potevo dare all’uomo. È stato il mio segno di fiducia e non me ne sono mai pentito. Più che una “stramaledetta cosa dopo l’altra” la storia dell’uomo è una storia che abita in mezzo a due giardini: quello dell’Eden e quello della Gerusalemme Celeste. E’ una storia incastonata nella Bellezza e che parla della Bellezza. Raccontatelo a chi piange: nessuna storia è inutile o senza senso, per quanto piccola e povera possa apparire. Ogni storia è un capitolo – o forse anche solo un rigo o un segno di punteggiatura – di una storia più grande che è la storia della salvezza. Quando penso all’uomo (e si asciuga una lacrima che ne tradisce l’amore viscerale che nutre per lui) mi piace pensare di avergli lasciato una Parola come casa. E la casa è quel luogo in cui ci si sente sicuri anche al buio. Perché, in qualsiasi caos le mie creature si trovino, quello sarà il punto di partenza del loro viaggio verso casa. Verso di Me.
Il cristianesimo è la storia di un incontro, come quella volta sulle sponde del lago chiamato “Arpa”. C’era un gruppo di persone, nemmeno tutte troppo giovani, alcuni erano anche padri di famiglia. Tante volte li aveva notati immersi nei loro lavori, nei loro pensieri, abbarbicati alla loro terra, al loro lago e alle loro abitudini. Li guarda e li chiama: li toglie dal torpore e li lancia su un futuro diverso. “Andrea, davvero vuoi raschiare questo lago per tutta la vita? Non vuoi buttarti nell’avventura del Regno di Dio? Guarda che non sarà una vita facile ma io ti sosterrò. T’interessa?”. Addio barca e pesci, reti e mercati, affetti e appalti: andarono e videro dove abitava. Nacque lì – tra pesci, reti e schiuma di mare – la storia più ambiziosa e paradossale che l’umanità abbia mai sentito raccontare.
Pensare quante volte gliel’ho detto in privato ai miei discepoli: “Non avrete niente da dire sulla morale fino a quando coloro che vi ascoltano non avranno goduto di un barlume del piacere di Dio nella vostra esistenza”. Il mio messaggio è prima di tutto un invito alla Bellezza, nasce dall’incontro che ho desiderato ardentemente tessere con la mia creatura, della quale rimango immensamente e perdutamente innamorato. Se qualche cenno morale ho lasciato loro come eredità, l’ho fatto con l’amabilità appresa nella mia casa di Nazareth: riprovare gli errori sì (lo impone la carità e la verità). Ma per l’uomo solo richiamo, rispetto e amore. Ecco che se c’è una morale nel mio linguaggio d’Amore lo è nell’accezione dell’augurio: perché l’uomo e la donna possano dare significati sempre meno banali ai loro gesti. In questo senso la morale è per me un’esigenza d’amore: la voglio bella la mia umanità!
Permetta un appunto, Rabbì. Scusi l’annotazione: dopo Auschwitz e il Biafra, dopo Hiroshima e Srebrenica è difficile parlare di Bellezza. Non crede?
La capisco. I miei discepoli non li ho mai ingannati: un giorno li vidi spavaldi e festanti, pieni di gaiezza e di aspettative e mi son detto “è il momento giusto, diglielo!”. Ho iniziato a parlare loro del viaggio verso Gerusalemme, della sagoma della Croce, delle incomprensioni e della Morte. Poi ho terminato facendo risuonare nelle loro orecchie l’eco della Risurrezione. Quel giorno si sono lamentati, ho visto sul volto del figlio di Keriot (Giuda l’Iscariota, ndr) qualche perplessità, li ho sentiti arrabattarsi per i posti e spartirsi in anticipo l’eredità. Li ho lasciati liberi, perché non ci può essere gioia senza libertà: “forse volete andarvene anche voi?” Li ho lasciati con una domanda. Conosco le tragedie dell’uomo: Auschwitz non mi è sconosciuto. Ma permetta pure lei una cosa: la storia voi la leggete dal basso e vi sembra una tela disgustosa perché i fili sembrano creare una semplice confusione colorata. Io la storia la contemplo dall’alto. E le assicuro una cosa: ciò che vedo è un po’ diverso.
Un giorno la mia maestra Assunta scrisse alla lavagna: “tutte le parole che finiscono con -ismo hanno prodotto catastrofi nella storia”. Anche catechismo è una parola che finisce con -ismo: come la mettiamo?
Mi piacerebbe conoscere la sua maestra: dev’essere stata una donna in gamba l’Assunta. Ogni tanto quando sento parlare di Me, mi guardo allo specchio e mi dico: “ma davvero ero così come mi descrivono all’ombra di certi campanili: tranquillo, pacifico, dolce, remissivo, con il collo inclinato sulla spalla destra e con gli occhi languidamente rivolti verso il Cielo?” Ogni tanto mi verrebbe voglia di fare una sorpresa a qualche catechista. Entrare all’improvviso, sedermi in mezzo alla gente e raccontare l’altra faccia di Me, quelli che pochi raccontano. Il mio sogno sarebbe quello di dare voce al mio mondo affettivo – che laggiù purtroppo avete relegato alla pietà popolare -: parlare dei miei desideri e dei miei sentimenti, del mio dolore e del mio pianto ma anche della mia gioia e del mio stupore, della mia ira e del mio sdegno. Della mia passione per la Bellezza e per le immagini: non sono mai stato un sognatore stralunato. Conoscevo la vita della mia gente e ne ho dato voce: i contadini che seminano il grano, i pescatori che scelgono i pesci sulla riva, i pastori con i loro armenti al pascolo, i mercanti che cercano perle preziose, gli amministratori che approfittano dei beni del padrone, la vedova che getta il poco che ha nel Tempio, la partoriente che dimentica le fatiche del parto. Come possono gli uomini dire: “dovrebbe essere uomo per capire certe cose!”. Pensare che ero Dio e ho scelto di diventare uomo per condividere con l’uomo l’avventura dell’esistenza. Raccontate ai giovani il mondo dei miei sentimenti e delle mie emozioni: le mie parole le si comprendono meglio col cuore che con l’intelligenza.
Lei ha parlato in parabole. Potremmo dire che l’immaginazione è il suo forte. Non le è sembrato di banalizzare il Regno di Lassù parlando di campi e aratri, di gigli e di corvi, di lievito e di fienagioni?
La mia era gente semplice, i miei li avevo scelti nei rioni popolari, nei crocicchi delle strade, al banco delle imposte o mentre stavano sdraiati e “ormeggiati” nelle loro barche inzuppate di sale marino. Come potevo parlare loro se non usando il loro stesso linguaggio? Ho scelto di parlare la loro lingua, di valorizzare i loro accenti e le loro antiche tradizioni per assicurare loro che il mio era un messaggio al quale il loro vivere non era estraneo, che le mie parole erano impregnate del loro sudore, che la mia speranza partiva dalle viscere della loro storia. Non c’era cosa più emozionante per me di scorgere il loro stupore quando parlavo del tramonto vespertino o del mare in burrasca, della chioccia con i piccoli e della traiettoria dell’aquila, dei granai sovraccarichi e di chi ladrava i tesori altrui. Li guardavo ed era come se mi dicessero: “parli di noi, Rabbì”. A quel punto tenevo stretta la loro attenzione e li agganciavo al Cielo. Solo così potevo pretendere e sognare che per loro il Cielo non fosse qualcosa di irraggiungibile. Mi creda: se oggi il mio messaggio è diventato incomprensibile – qualcuno laggiù dice che somiglia ad un film straniero senza sottotitoli – è perché l’uomo l’ha fatto diventare una questione di testa. A me importava colpire il cuore: la mia ars amandi ha sempre inizio in quelle profondità misteriose e imperscrutabili in cui albergano i desideri dell’uomo.
Qualcuno ha detto che la sua Chiesa è in ritardo di duecento anni. Le risulta questo “fuso orario”?
Dite un po’ troppe cose voi uomini. E ogni tanto siete per me cagione di qualche sorriso che confido alla Trinità. La mia Chiesa sarà sempre in ritardo: il sogno che le ho raccontato mentre le davo vita – poggiandola sulle spalle di quell’amico estroverso di nome Pietro – è lungi dall’essere realizzato: in questo senso è in ritardo, ma è un ritardo che fa parte della mia fatica di aprire spiragli di cielo dentro le strade delle tenebre. C’è poi un altro ritardo, dovuto alla fatica dei miei discepoli di essere uomini capaci di cielo ma che camminano sulla terra. L’ha detto il mio ultimo successore, Benedetto XVI: “c’è qualcuno che quando guarda una certa chiesa dice: questa non è la mia Chiesa”. Potrei aggiungere: “neanche la mia, se proprio lo volete sapere”. Eppure non mi arrendo nell’impresa: il giorno in cui vedrò realizzato il mio sogno – scriva pure che si tratta di un “sogno da Dio” – la storia avrà raggiunto il suo picco di luminosità massimo. E sarà festa quassù. Festa grande.
Non le sembra d’essere un po’ ambizioso nel suo modo di fare e un po’ troppo paradossale nei suoi discorsi?
Ambizioso, paradossale e pure esuberante. So che nel vostro alfabeto sono tre termini “malandrini”. Eppure hanno una loro bellezza accecante. Nella lingua di casa mia il paradosso è qualcosa che va oltre il modo di pensare comune: in questo senso sono paradossale. L’ambizione ci sta tutta: ho la pretesa delicatissima che la mia storia terrena divenga la storia dell’umanità intera, nonostante la mia squadra ancor oggi sia tratteggiata come un manipolo di illusi privi di ogni ragionevolezza. E poi sono pure esuberante: c’avevo una storia così straripante di Bellezza che ad un certo punto mi son detto: “non essere geloso, Gesù: condividila con gli altri”. Quel giorno ho deciso di farmi Uomo per condividere la mia storia personale con l’uomo. Quando sentivo la gente dire di nascosto ai miei discepoli: “quella è gente paradossale” il mio cuore era in festa: era per me l’attestato che era gente diversa nello stile da ciò che andava di moda.
Permetta una domanda indiscreta: si sente un genio incompreso?
Assolutamente no. Sono un Dio che si è messo alla ricerca dell’uomo semplicemente per amarlo. È che oggi ad amare si rischia grosso: perché amare significa far ritrovare un’ala d’appoggio per librarsi in volo. Ma l’uomo si vergogna d’essere fragile. In questo senso sono incompreso: non hanno ancora capito che nella loro fragilità ci sta la mia forza. Paradossale, vero?
Marta è in subbuglio. Le amiche l’hanno invitata a cena e lei ha dovuto declinare l’invito: “ho Gesù a casa”. Le hanno riso in faccia, non ci potevano credere. Pure lei faticava a capacitarsi che quell’Uomo così ambito e ambizioso fosse di casa. Un bacio sulla guancia e un arrivederci. “Fuori tutti, adesso”. Stavolta è Lazzaro a parlare. Forse ha ragione: anche Gesù aveva bisogno dei suoi spazi familiari.
Era veramente uomo.
Nell’Anno della Fede indetto da Benedetto XVI a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, un ritratto-intervista sui generis all’Uomo che ritengo dalla personalità più sconcertante della storia. L’appuntamento – per chi lo desidera – sarà ogni terzo giovedì del mese dalle ore 20.30 alle ore 22 presso la Parrocchia della Madonetta di Sarcedo (Via San Giuseppe – 0445.884050). Un percorso tra le parabole dei Vangeli dal titolo: “La bottega del vasaio. Perché la Parola di Dio non ha ancora perso la voce”.
Una proposta dedicata a tutti i cercatori di Dio!
Giovedì 18 ottobre 2012
Come grano e zizzania (Mt 13, 24-30)
Giovedì 15 novembre 2012
Come di chi ha talenti (Mt 25,14-30)
Giovedì 20 dicembre 2012
Come di chi trova tesori e perle (Mt 13,44-46)
Giovedì 17 gennaio 2013
Come servo noncurante della bontà di Dio (Mt 18,21-35)
Giovedì 21 febbraio 2013
Come fico sterile: ancora un anno di tempo (Lc 13,1-9)
Giovedì 21 marzo 2013
Come pastore di un gregge. E di quella pecora (Mt 18,10-14)
Giovedì 18 aprile 2013
Come quella volta al tempio. Un fariseo e un pubblicano. (Lc 18,9-14)
Giovedì 16 maggio 2013
Come quella volta a casa di Simone (Lc 7,36-50)