mare

Come ostriche sullo scoglio, tenacemente aggrappate laddove ha avuto inizio la loro storia. Le ostriche della novella “Fantasticheria” di Giovanni Verga, romanziere dell’Ottocento italiano: dalla loro fisionomia e dalle loro movenze si lasciò guidare per elaborare “l’ideale dell’ostrica”, quel punto d’appoggio che sostiene la povera gente. Lo spiegò a quella dama d’alta società che – fermatasi per due giorni nel paesino di pescatori e affascinata da quel mondo pittoresco, rude e semplice – dopo due giorni abbandonò perchè colta dalla noia. Le ostriche del Verga sono di tutt’altra specie da quelle che riempiono la cronaca in questi giorni: più che simbolo di mondanità e di sperequazione, la vita delle ostriche divengono per lo scrittore catanese la metafora per proclamare la religione della famiglia, quella predicata dal vecchio padron ‘Ntoni nei pressi della casa del nespolo. Come l’ostrica vive sicura finchè resta avvinghiata allo scoglio, così sarà dell’uomo: vivrà sicuro finchè non tradirà quella religione nella quale hanno creduto, sono cresciuti e hanno tramandato i loro padri. Vivranno poveri ma sicuri, forti di quell’umile fierezza che proviene dal quotidiano adoperarsi per guadagnarsi la vita. Quella del Verga è una religione che si riverbera sul loro mestiere di pescatori, sulla casa e persino su quei sassi che fanno la strada che porta ad Aci Trezza. Cose queste – l’ostrica come quella famiglia di pescatori – che per il Verga sono “rispettabilissime e serissime”.
Della trama di questa novella il Verga si servì per presentare in anteprima personaggi, profumi e tradizioni che troveranno vita e azione nel romanzo “I Malavoglia”. Divenne anche la sua dichiarazione d’intenti sull’uomo e sulla società: allorquando si tenta di turbare un equilibrio sociale, si è destinato a fallire. Oggi – che delle ostriche si parla in forma negativa e le si abbina spontaneamente con lo champagne – quest’ideale ben s’addice alla riapertura delle nostre parrocchie all’alba dell’Anno della Fede. All’ombra del campanile – alternando vecchi adagi e arrischiando nuovi percorsi come i Magi – la missione è quella di raccontare e condividere la trama di quella storia sempre più ambiziosa e paradossale che va sotto il nome di cristianesimo, la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta. Riaprono le porte degli oratori, si rianima la piazzetta in fronte alla chiesa e si riaccende la vecchia sfida: mostrare come la fede cristiana abbia ancora qualcosa da dire all’uomo e alla donna del nostro tempo. Come nella novella del Verga, anche qui c’è uno scoglio al quale rimanere aggrappati, pena il rischio di lasciarci divorare dalla disperazione. Uno scoglio che corrisponde ad un Volto, Gesù di Nazareth, il cui nome non sta scritto sulla sabbia come le vecchie poesie d’amore ma è inciso sulla roccia, materia evangelica di provata robustezza. Perchè l’uomo, rimanendogli fedele, possa sperimentare la bellezza e l’utilità di un Dio che perdutamente lo ama ma soprattutto il piacere di creare amicizia con Lui. E se la sagoma dello scoglio terrà la morfologia del Golgota, varrà ancor più l’alfabeto dell’ostrica: quando entra in essa un granellino di sabbia prova dolore. Per difendersi dall’irritazione, lo avvolge con strati di madreperla che, usciti, daranno forma alla bellezza della perla. Dentro la bellezza alloggia la sofferenza, come dietro il sepolcro abita il Calvario: ostriche felici non fanno perle, ostriche sofferenti sono artigiane della bellezza.
Tutto il Vangelo prepara alla Risurrezione ma non la descrive. Rimane quel sepolcro spalancato come occasione di inaspettato stupore, al quale sapranno prestare voce coloro che sullo scoglio di Cristo stanno aggrappati come le ostriche del Verga. Per evitare che il mondo, da pesce vorace qual è, ne deturpi la bellezza.

(da Avvenire, 28 settembre 2012)

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