pastoGiuda non era uno stupido e tanto meno uno sprovveduto: dell’intuito e dell’intelligenza fece discutibile uso ma il suo fiuto era da primi della classe. In direzione di Tiro – appena dopo Cafarnao e poco prima di scendere verso Sidone – non si curò che tutta la truppa fosse nel mezzo della strada. Lui guardò – forse Giacomo o uno dei due figli di Zebedeo, o qualche altro – e confessò loro il suo sospetto: “il Maestro incomincia a diventare violento, non si domina più”. Lo disse lui, l’uomo di Keriot: che il Maestro fosse capace di anticipare l’avvenire lui non dubitava. E’ che quell’immagine sbilenca di un Dio schiacciato e crocifisso a lui proprio non andava giù. Gli rimase infissa nella gola, in quello spazio angusto e vocale dove un giorno una corda gli strangolerà l’ultimo soffio.
Tutta colpa di quella profezia taciuta per quasi mille giorni, dalle sponde del lago fin quasi sul limitare di Gerusalemme. Ne parlò con precauzione il Rabbì Nazareno: “il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà” (liturgia della XXV^ domenica del tempo ordinario). Lui confidava loro con delicatezza e premura la sfida di Gerusalemme, l’ignavia della Croce, l’inedito del mattino di Pasqua. Loro capirono – e Pietro ne fece le spese a nome di tutti con quell’epiteto satanico – ch’era giusto l’attimo di spartirsi la merce rimasta: “a me il potere su Cafarnao, a Giacomo la seggiola di Sidone, a Bartolomeo tutta la fetta di gente che abita attorno al lago. A Taddeo le stoviglie e i piatti, a Filippo la casa di Nazareth e il fienile di Betlemme. A Pietro i campi e le stalle, a Giuda l’ultimo gruzzolo di spiccioli rimasti”. Presi un po’ in indietro rispetto all’andatura di Lui, non riuscì loro di trovare un accordo consensuale. Forse qualcuno alzò la voce, qualche altro mostrò le mani, altri ancora fecero capire col ghigno ruvido ciò che le parole tacevano. Qualche frammento di discorso arrivò avanti loro, nelle orecchie di quel Maestro amabile e severo. Fece orecchie da mercante o, semplicemente, non li volle svergognare sul palcoscenico della strada: qualcuno avrebbe potuto gioire di quei panni lavati fuori dalle mura. E loro forse speravano d’averla scampata, magari promettendosi tregua all’ingresso di Cafarnao. Ma giunti che furono in casa – al riparo da sguardi, indiscrezioni e orecchie foreste – mostrò loro che anche i capelli del capo erano contati. E li strattonò con una domanda: “di che cosa stavate discutendo lungo la via?” Colpiti e affondati: come bambini pizzicati con le mani nel sacco. E loro – forti di anime allenate alla sincerità – gli diedero una risposta all’altezza dei loro pensieri: tacquero. Forte era il rischio di ripetere la figuraccia di qualche ora prima: quella volta intervenne Pietro e come dote ricevette lode e infamia. Stavolta pure lui sembra aver taciuto.

“Voi dipingete la Chiesa soltanto in bellezza, voi la contemplate in ideale quale dovrebbe essere, quale Dio la vuole, quale è nei vostri sogni (…)
Niente affatto. Io la mostro, e ancora molto male, quale è nel suo mistero, cioè nella sua realtà più reale, ma agli occhi della fede. Io non nego le miserie d’ordine vario, morale o d’altro, che in ogni tempo l’hanno afflitta e che l’affliggono oggi in ciascuno di noi. Io le affermo, io le proclamo, io ne enuncio il paradosso e lo scandalo inerente alla sua missione stessa. Ma descrivere questa miseria minutamente, mettere in mostra le sue piaghe non farebbe avanzare minimamente la conoscenza del mistero della Chiesa (…) E poi la Chiesa siamo tutti noi, sono io stesso; con quale diritto mi metterei fuori dal quadro? Io, peraltro, non ho nessuna voglia di fare la mia confessione pubblica”.
(H. De Lubac, Nuovi paradossi, Paoline, Alba 1964, 136-137)

Li guarda e un pizzico di malcelata compassione ne riga lo sguardo: nel mondo li ha colti, serve ancora pazienza – e servirà pure perderne uno – prima di far loro comprendere che “tra voi non sia così”. Stava un bambino ad origliare forse sullo stipite della porta. Si alza, lo accarezza e lo fa sedere innanzi a loro. Gli occhi bassi e vergognosi, non all’altezza e miseri s’alzano e ne odono la spiegazione: “chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome accoglie me”. Li videro uscire con le orecchie basse: era la prima Chiesa nascente. Più che bozzetti di santi e stralci di principi, tenevano i lineamenti di gente misera e meschina che pagò a caro prezzo la supponenza avanzata. In quel crepuscolo di Cafarnao, s’affacciò il lato umano della Sua Chiesa-Sposa: che ce ne saremmo fatti di splendidi e perfetti discepoli? Sarebbero serviti solo a farci svergognare delle nostre nudità e arrossire per le nostre piccolezze; e magari in qualcuno sarebbe sorto il sospetto d’essere indegno di quella truppa evangelica. Invece li volle così: del borgo, macchiati di umano e nostalgici di Lui, scomposti e odorosi di strada. Per raccontare all’umano che la Chiesa non è mai stata la comunità dei perfetti ma un manipolo di gente perdonata. Che a sua volta diverrà il paradosso e l’ambizione di un Uomo che dell’indegnità dei suoi figli non teme ripicca.
Quei figli che, apparentemente sornioni, se ne stanno ancora indaffarati sulla strada a borbottare su chi tra loro sia il più grande.

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