Come riparatori di scarpe bucate o senza più la suola; dentro l’angustia di una stanza che somiglia più ad un vecchio e polveroso laboratorio d’artigiano che ad un’aula scolastica di un liceo cittadino. Ad immaginare un motto per questa scuola, basterebbe chiedere in prestito qualche battuta ad Isaia, prof e profeta di una generazione di artigiani della Parola: “ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi” (Is 58,12). Lavorare per riparare, insegnare per restaurare, amare per educare: in qualunque caos l’uomo e la donna si trovino, quello sarà il punto di partenza per ogni viaggio di ritorno a Lui, perché la casa è quel luogo in cui ci si sente sicuri anche al buio. Quelli seduti stamattina in aula sono alunni un po’ strani: la giustizia li ha dichiarati colpevoli, la società li ha mandati in esilio nel carcere-gulag, la scuola tenta l’avventura di rimettere in moto i loro passi alla ricerca di un’esistenza perduta. L’unica scuola italiana in cui l’anagrafe e i lineamenti tradiscono palesemente anche l’occhio più esperto: qui a sessant’anni potresti essere al secondo anno di ragioneria, a quarant’anni frequentare l’ultimo anno di Università, a settant’anni imbatterti per la prima volta in Talete e Anassimandro. O imparare sulla soglia della vecchiaia ad abbinare il soggetto, il verbo e il complemento oggetto. Quella in carcere è una scuola che può sembrare strana ma profuma di verità: nessuno è mai così sazio di giorni e carico di anni da non poter far fare un passo in più alla sua dignità. E si comincia sempre dai pensieri perché l’uomo somiglia al pesce: quando inizia a marcire inizia sempre dalla testa. La testa e l’anima: i due incroci ai quali darsi appuntamento per fare di un vecchio scassinatore di casseforti un uomo capace di logica e di analisi, di organizzazione e di manualità, di stupore e di inventiva. Di umanità.
In carcere le parole sono una specie di terapia: saperle usare permette di iniziare l’unica forma di rieducazione possibile, quella di chi affina le armi per auto-rieducarsi e arrivare laddove la Legge e il Codice falliscono. Qualcuno di loro entra illetterato e sconclusionato nei pensieri, incapace di far quadrare i conti e allergico alla logica: dopo anni di apprendimento e di rielaborazione del pensiero se ne esce capace di parola e di poesia, esperto di narrativa e perfetto conoscitore del diritto. O semplicemente con il felice sospetto d’essere diventato un uomo migliore attraverso la fatica della scuola. A scommettere sulla loro riuscita sono in tanti, prof appassionati dell’uomo prima che della materia: d’altronde pochi panorami al mondo tolgono il fiato come il contemplare l’alba sopra le macerie di una vecchia delinquenza. E poche risurrezioni sorpassano lo stupore di scorgere nel volto di vecchi rapinatori lo stupore di un bambino alle prime armi con la grammatica e la geometria, l’aritmetica e l’algebra, il compasso e la calcolatrice. Questi sono uomini-alunni che con le parole arriveranno laddove non sono arrivati con un uso magari distorto della loro libertà: lo studio e la condivisione dei pensieri permetterà loro di dare un nome alle loro emozioni, di scoprire il perché misterioso di quel gesto, di scendere dentro gli abissi della loro esistenza e tornarsene con un punto d’appoggio sul quale ripartire per risollevare la loro esistenza.
In carcere ieri è suonata la campanella. Anche qui s’è accesa l’avventura di dire: “la scuola siamo noi”, sulla scia della proposta lanciata da Avvenire sabato scorso. Siamo noi e non potrebbe essere diversamente: perché qui dentro la scuola non s’azzarderà mai a dividere il mondo e la storia in “buono e cattivo, giusto e proibito”. La vera sfida rimane quella di insegnare loro a ricercare modi sempre meno banali per accendere l’avventura dell’esistenza umana. Perché in carcere il sapere anticipa sempre di qualche attimo il profumo della libertà.
Come il volo di una rondine sussurra l’arrivo della primavera.
(Avvenire, 13 settembre 2012)