misuicidio

Come un grido rauco che s’innalza verso il cielo: “questa non è vita!”. E’ la triste cornice – firmata dentro una delle patrie galere italiane – che pone la parola fine ad un’estate complicata e densa di solitudine dentro le celle della disperazione dei penitenziari italiani. Quelli che fuori sono i mesi del riposo e della spensieratezza, dietro le sbarre sono sempre più i mesi della morte e dell’angoscia, forse anche della noncuranza. Un incrocio di odori: quello del sudore e della sporcizia, del minestrone e dell’insalata, del bucato e della pelle scottata dal sole sul cemento. Un incrocio di sguardi: disperazione e fremito, angoscia e turbamento, desolazione e inquietudine del cuore. Un incrocio di pensieri: di morte e di vita, di rassegnazione e di disfatta, di riscatto e di impotenza. E come tela sulla quale scrivere pagine di storia più o meno leggibili, quel senso di profonda angoscia che t’invade l’anima, che infiacchisce lo spirito e che complica il viaggio della speranza dentro gli anfratti del male. Il Papa invita alla preghiera perché sia salvaguardata la loro dignità: eppure il suo è il canto solitario di un Pastore amabile, la brezza leggera in un’estate accaldata di pensieri di morte e di sofferenza, il grido appassionato di un profeta indomito che nell’uomo riesce ancora a scorgere la miniatura di Dio.
Ieri mattina in carcere ci si è svegliati con il rintocco lento di una campana: ancora una volta la cintura, da ornamento di bellezza e di eleganza, è diventata la compagna di morte dentro l’angustia di una cella. “Questa non è vita”: lo dicono in tanti, fanno finta di non sentirlo in molti, la morte gongola sulla sua apparente vittoria. Quello dei suicidi in carcere è ormai un tema al quale ci siamo assuefatti, come le stragi del sabato sera, il massacro dei cristiani nelle terre d’Africa, il numero dei disoccupati e dei senza tetto: i numeri non riescono più ad accendere pensieri, a smuovere le coscienze, ad immaginare una forma diversa di giustizia che non sia la sorella gemella della vendetta, una forma di espiazione della pena che estirpi alle radici il male ma aiuti a riaccendere l’uomo che del male è stato forse vittima oltreché carnefice. Perché l’uomo imprigionato dentro una cella è un uomo sottoposto ad un regime di abbrutimento, è una fonte di frustrazione e di impotenza, è uno stimolo a non cambiare: “amare l’uomo – scrisse il romanziere russo Dostoevskij – significa vederlo come Dio ha voluto che sia”. In tal modo l’esperienza del carcere s’avvicina all’esperienza alla quale fu costretto Geremia dentro la bottega del vasaio: l’argilla si frantuma, il vaso si sforma ma il tutto è pur sempre nella mani del Dio-Vasaio che è capace di farle ritrovare la forma originaria. Il vaso non va gettato, Ninive non va rasa subito al suolo, al fico sterile va concessa la chance di una nuova annata: non lo capiva Giona e vestì i panni del bambino geloso e capriccioso, non lo capirono nemmeno i discepoli ma lo capì Maria che stette coraggiosa ai piedi della Croce per poi contemplare in anteprima lo spettacolo inaudito della Risurrezione in quel primo mattino tutto ebraico.
Ogni suicidio toglie un peso al carcere: si libera un posto. Come dote lascia però un fardello ben più grave: il sospetto che in carcere esistano gli uomini malvagi, ma che le persone disperate siano molte di più. Sono queste ultime a sovraffollare gli istituti penitenziari e, inascoltate, diventano voce rauca di chi ha dimenticato anche l’ultima sillaba per cantare la vita. Nel gesto dell’impiccagione, la richiesta d’aiuto più delicata e inascoltata: aiutateci a ridare senso e valore alle nostre giornate. Per non diventare “zingari sperduti e vagabondi su un pianeta indifferente alla nostra tragedia”, come scrisse Monod. Ma questa tutto sarebbe eccetto che l’evangelica avventura dell’esistenza.

(Avvenire, 1 settembre 2012)

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