Come discepoli di Cristoforo Colombo. O come discendenti diretti di quell’Ulisse che dell’ignoto che abitava oltre le Colonne d’Ercole fece il palcoscenico nel quale mettere in scena l’ardire di un uomo che sfida la sicurezza del conosciuto per abbracciare l’intrigo del mistero. O semplicemente uomini capaci di trasformare la sventura di un corpo non perfetto in una sfida capace di gioia e di stupore. I corpi perfetti ed esagerati delle Olimpiadi di Londra lasciano ora il posto ai cervelli luminosi e al coraggio disarmante di questi uomini – i protagonisti delle Paralimpiadi 2012 – che nello sport hanno trovato l’alfabeto per raccontare la bellezza della vita che risuona anche dentro le malformazioni di corpi non da copertina. Sono volti noti e meno noti, storie anonime ma sorprendenti, splendidi interpreti di un’idea che un giorno è entrata nella loro anima e non li ha più abbandonati: “perché loro sì e io no?”. Nacque lì, ai piedi di un letto d’ospedale o nella sala d’attesa di un medico, il sogno di mostrare come il virus non ancora vinto sia rimasta l’idea di un progetto, quel miscuglio di sentimento e di passione che ti travolge e acceca, ti strapazza e ti consola, ti stringe e ti catapulta altrove. Ti seduce e ti rende gravido di sogni per ricordarti che l’uomo e la donna sono sempre in stato di parto.
“E li chiamano disabili” scrisse un giorno Candido Cannavò, storico direttore de La Gazzetta dello Sport. In realtà è gente della porta accanto che ha trasformato la disabilità in uno strumento formidabile per diventare persone migliori, uno stimolo pazzesco per migliorare se stessi e, nel contempo, aiutare l’umanità a fare passi da gigante. Nessuno può immaginare chi sarebbero diventati Oscar De Pellegrin e Assunta Legnante, Andrea Cionna e Riccardo Scendoni, Giorgio Farroni e molti altri senza le avversità della loro vita. Sappiamo, però, cosa sono diventati grazie al loro impegno per tradurle in opportunità. La tecnologia in alcuni casi supplisce la mancanza della natura dentro quei corpi, ma al centro rimane sempre l’uomo con la sua moltitudine di potenzialità e la sua miniera di risorse non ancora scoperte. Il mondo avverte commozione dentro le loro gesta e i loro fallimenti; eppure ciò che stupisce un osservatore attento è la voce della vita che si fa riconoscere dentro gli abissi di un’apparente morte, la danza della Bellezza che scava dentro le gallerie del male, la forza del sogno che smantella l’inganno della rassegnazione. Perché le Paralimpiadi sono una competizione stranissima: non vince chi indossa la medaglia o arriva alla finale, ma il vincitore è colui che è riuscito ad esserci. Ed “esserci” è stata la loro grande vittoria perché loro, prima di tutto, gareggiano contro se stessi e contro i pregiudizi di un mondo che li guarda troppo spesso con occhi di compassione e di disgrazia. Le loro battaglie – sportive e non – sono battaglie per il popolo: per gridare “si può!” a gente disperata e rassegnata, per dare voce a chi non ha voce, per far conoscere questa terra inesplorata e commovente che è il mondo della disabilità.
Philip Craven, presidente del Comitato Paralimpico Internazionale, chiede che non venga usata per loro la parola “disabili” perché indica un qualcosa che non funziona. Sono semplicemente atleti, con un grosso handicap per noi che li contempliamo dal divano di casa: sono capaci di cose che noi “non disabili” neanche con arti funzionanti e occhi vedenti riusciamo solo ad immaginare. Il motivo è presto detto: “non sono le nostre disabilità che ci rendono disabili, ma le nostre abilità che ci rendono abili”. Parola di Oscar Pistorius. E di mille altri nascosti dietro di lui che stanno aiutando l’uomo a ritrovare la voglia matta di cantare alla vita: l’unico inno che s’alzerà al cielo dal podio di ogni loro impresa.
(Avvenire, 30 agosto 2012)