Se i personaggi del vangelo avessero una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica di camminatore più infaticabile – Gesù a parte – l’avrebbe vinta la giovane ragazza di Nazareth. Sempre in cammino… Da quel mattino tutto ebraico in cui l’hanno immortalata mentre s’avvia lentamente verso la fontana del villaggio con la sua brocca d’acqua in testa, dall’aurora di quel lontano mattino non s’è più fermata. Da un punto all’altro della Palestina, con uno sconfinamento persino all’estero. I monti di Giuda solcati per arrivare a Nazareth. Direzione obbligatoria verso Betlemme con svolta a sinistra per far sosta al tempio di Gerusalemme. Espatrio clandestino tra le sabbie dell’Egitto e ritorno guardingo in Giudea. Sconto comitiva per il pellegrinaggio a Gerusalemme e raddoppio del percorso alla ricerca disperata di quel figlio ribelle. Inerpicata sulla salita hors categorie del Calvario per ammirare il supplizio della croce. Maria, donna della strada! Seduta solo a Cana. Seduta, ma non ferma!
L’evangelista Luca, all’inizio del racconto di questo viaggio (liturgia della Solennità dell’Assunzione di Maria), lo caratterizza con due parole che i commentatori spiegano con abbondanza: “Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda”. “In fretta”: i vocaboli fanno capire la rapidità di decisione e di esecuzione, un minimo di tempo per i preparativi della partenza, la risoluzione di prendere la via più breve e d’arrivare al più presto. Lo slancio e la spigliatezza di questa vergine fanciulla di Nazareth sono in armonia con un cuore generoso e sollecito nel portare gioia, felicità e aiuto. La stessa parola lascia anche indovinare le qualità fisiche di Maria, una resistenza e un’agilità capaci di affrontare un viaggio dei più duri, di quattro giorni. Ma lei era figlia di una razza nomade, che conservava la nostalgia di orizzonti sconfinati, aveva il gusto dell’aria libera e della marcia intrepida.
E chissà mai che non capiti anche a casa mia, un giorno, per raccontarmi la sua gioia. T’immagini: Maria a casa mia! Come a casa della cugina Elisabetta. Sì, io Maria la voglio sentire proprio così. Di casa. Mentre parla il mio dialetto, esperta di tradizioni antiche e di usanze popolari. Che, attraverso le coordinate di due o tre nomi, ricostruisce il quadro delle parentele, e finisce col farti sentire parente di tutto il paese.
Lasciate che io la veda così. Immersa nella cronaca paesana. Con gli abiti del nostro tempo. Che non mette soggezione a nessuno. Che si guadagna il pane come le altre. Che parcheggia la macchina accanto alla nostra. Voglio immaginarmela adolescente, mentre nei meriggi d’estate risale dalla spiaggia in bermuda, bruna di sole e di bellezza, portandosi negli occhi limpidi un frammento di mare. E d’inverno, con lo zaino colorato, va in palestra pure lei. E passando per Prato della Valle saluta la gente con tenerezza. E ispira in chi la guarda nostalgie di castità. E va a braccetto con le compagne, ne ascolta le segrete confidenze, e le sprona ad amare la vita.
Io voglio sperimentarla mentre passa per le strade del centro storico e si ferma a conversare con le donne del mio paese. O incontrarla al cimitero il lunedì mattina quando depone un fiore ai suoi morti. O quando alla mezza, con tutte le altre madri davanti alla scuola del paese attende che il suo bambino esca per portarselo a casa e ricoprirlo di baci. Io non la voglio ospite, la voglio concittadina. La voglio sentire così: tutta mia, ma senza gelosie. Contenta anche di condividere la mia esperienza di fede, contraddittoria ed esaltante. Gioiosa di appartenere al mio ceppo di contadini, di esuli inguaribilmente attratti dalla loro terra natale. Sempre pronta a darmi una mano. A contagiarmi della sua speranza. A farmi sentire, con la sua struggente bellezza, il bisogno di Dio. E a spartire con me momenti di festa e di lacrime. Profumi di forno e di bucato. Lacrime di partenze e di arrivi. Come una vicina di casa dei tempi antichi. O come una splendida creatura che ha il domicilio sotto il nostro stesso numero civico. Col profumo di una madre addosso.
Emanuele nasce il 6 maggio di 42 anni fa nella splendida terra di Sicilia. Il 6 maggio di ventuno anni fa per lui si spalancarono le porte delle carceri. Venti anni e mezzo trascorsi nelle celle di mezza Italia con il regime punitivo del 41/bis, il trattamento riservato a chi appartiene alla criminalità organizzata. Non tiene famiglia, c’è solo una madre là fuori che l’aspetta. Si è sorbita migliaia di chilometri, decine di cambi di stagione, intemperie e speranze, grandinate e attese. Per più di vent’anni ha parlato con l’unico suo figlio da dietro un vetro, nemmeno la possibilità di toccare quella carne, di carezzare quella barba, di stringere quelle mani intessute nel suo grembo di donna. Anche dall’altra parte c’era un figlio che voleva toccare, stringere, abbracciare: anche i lupi hanno un cuore. Il 6 maggio di quest’anno ad Emanuele viene tolto il 41/bis e arriva a Padova: carcere durissimo ma almeno i colloqui li farà seduto attorno ad un tavolino. Lunedì scorso sono entrato nella sua cella che – da buon ergastolano – rimarrà per tutta la vita il suo punto di osservazione sul mondo. L’ho visto disteso, sorridente, amabile nella sua tremenda fatica. “Sono felice don – mi ha detto con un dolcissimo sorriso – tre giorni fa ho fatto il colloquio con la mia mamma. Non immagini l’emozione”. Nessuno immagina l’emozione di toccare una madre, di sentire il profumo di quella carne ch’è la tua carne, di sentire il peso di quel respiro che se potesse parlare ti racconterebbe l’altra faccia della vita. Per due ore la madre se l’è baciato, se l’è stretto, l’ha coccolato: seppur brigante per la giustizia, per la madre è rimasto un figlio da amare. Me lo sono contemplato mentre parlava, mentre mi raccontava l’emozione di quegli attimi attesi quasi 8000 giorni, mentre si asciugava qualche lacrima. Poi prima di uscire mi fa una confidenza, al pari di un bambino tutto emozionato: “Sono tre giorni che non mi lavo il volto, don Marco. Non voglio perdere il profumo di mia madre che mi è rimasto sul collo”. Dentro la disperazione più cupa, dentro il ventre delle galere più orribili, dentro l’abisso della malvagità c’è solo un’essenza che regge: il profumo di una donna. Se poi quella donna porta il nome di tua madre allora quel profumo ha un qualcosa di speciale. Perché le mamme sono diventate speciali il giorno stesso in cui pure Dio – finissimo intenditore di bellezze – s’è scelto una donna di Galilea per dare una pista d’atterraggio al suo Figlio, quell’unigenito che Lui amava. La mamma di Emanuele ha lasciato la fragranza di un profumo sul collo del suo amato Figlio. Maria di Nazareth ad ogni donna ha lasciato impresso il segreto di quel profumo: amare l’uomo quando meno se lo merita. Forse quello è il momento nel quale ha più bisogno. Per fortuna c’è Maria sul ciglio della disperazione.
IsoRadio 103.30 è la voce amica di chi si mette in viaggio su strade e autostrade soprattutto nei caldi giorni di ferragosto. Poca fantasia in quelle notizie… 7 km di coda tra lo svincolo dell’A4 e l’innesto della A27 in direzione Belluno. Maxi tamponamento tra Borgo Panigale e Bologna San Lazzaro. Si consiglia l’uscita a Ferrara. 15 km di coda alla barriera di Venezia Mestre. Si viaggia a rilento sulla A27 del Brennero in direzione Nord. Santa Maria, donna della strada, fa che i nostri sentieri siano strumento di comunicazione con la gente. Liberaci dall’ansia della metropoli e regalaci l’impazienza di Dio. L’impazienza di Dio ci fa allungare il passo per raggiungere i compagni di strada. L’ansia della metropoli ci ha reso fuoriclasse nei sorpassi azzardati. Se ci vedi allo sbando sul ciglio di una strada annebbiata, fermati! Facci volgere gli occhi al cielo e anche sulle nostre strade trafficate di stress fiorirà l’esultanza del tuo Magnificat.
Come in quella lontana primavera sulle alture verdeggianti della Giudea, quando ci salisti tu!
E quel giorno l’Eterno firmò l’Assunzione più bella: assunta a tempo indeterminato. Per la gioia dell’intera umanità.