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S’affaticano per anni nel silenzio di una palestra di periferia o nel brusìo naturale di un lago di pianura. Nascosti e innamorati, come monaci certosini nel chiuso di una cella a tessere la loro ragnatela: giorni fatti di ore, mesi fatti di giorni, anni fatti di mesi. Emergono come talpe da sotto terra ogni quattro anni: fosse per loro ci sarebbero ogni domenica, ma le leggi del marketing non accreditano loro interessi da sponsor. Offuscati dalla luce artificiale e mercenaria del calcio, semplicemente attendono; per poi farsi trovare pronti il giorno della sfida. Decine di mesi a preparare l’inezia di nove secondi da correre, di 1500 metri sui quali far viaggiare una canoa, di un arco da tendere fino a sfiorare la perfezione. Di un piattello da colpire, di un esercizio da rendere impeccabile, di un triplo salto che conduca nell’Olimpo degli dei. Le Olimpiadi sono la loro grande occasione e loro – proletari innamorati di sport sbadatamente definiti “secondari” – invece che piangersi addosso regalano al mondo la lezione più bella: quest’appuntamento è degno di così grande attesa e preparazione. Nelson Mandela – che di medaglie olimpiche non ne ha vinta nessuna – un giorno disse che lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Può anche darsi, di sicuro lo sport aiuta a capire meglio il mondo e la storia degli uomini. Perchè lo sport è tutto eccetto che improvvisazione: é ricerca, studio e proiezioni. Calcoli, probabilità e tentativi. E’ un limite da superare, una mèta da conquistare, una barriera da infrangere. E’ ragionevolezza, probabilità, programmazione, pianificazione. Applicazione massima. E’ scoprire qualcosa per il quale valga la pena di spendere l’esistenza, il quotidiano allenamento, l’appassionante sfida della vita. E’ fare esperienza di un qualcosa che attrae all’inverosimile fino a fare della vita umana la scommessa più bella.
Le Olimpiadi specchiano la storia, quella storia composta da eroi fatti di giorni e sudore. Non per nulla quelle cinesi furono faraoniche e di cartapesta: allora si fece finta di non avvertire la nenia funebre di una crisi che aleggiava spaventosa. Quelle di quest’anno saranno celebrative e simboliche di un mondo che corre “in riserva” e a corto di certezze. E’ il destino di Londra, nazione dove lo sport s’intreccia profondamente con la vita quotidiana. Nel 1948 c’era una guerra sullo sfondo da dimenticare, oggi c’è una crisi sullo sfondo con la quale familiarizzare: è il destino che la storia riserva alle città simbolo. 17 giorni di gare, 10490 atleti, 204 paesi, 26 sport e 39 discipline, 959 medaglie da assegnare: numeri che dicono la magia che abita dentro l’avvenimento sportivo più ricco di storia che esista. Storia e favola: storia perchè le Olimpiadi sono sempre state un antidoto ai conflitti, una parentesi tra le guerre (oggi un po’ meno), occasione di sfide stellari invece che di guerre fratricide; ma anche favola, per quell’inimitabile capacità di costruire racconti e abbozzare leggende, di far commuovere e riflettere, di spingerti nell’olimpo della gloria e farti assaporare la malinconia della disfatta. E sono pure buona novella, per quell’alternanza di successo e di insuccesso che obbliga l’uomo a ritornare al centro della storia, con le sue debolezze e i suoi sogni. Con le sue sconfitte.
Le medaglie di Londra 2012 saranno più grandi del passato, ma anche quelle d’oro sono fatte di rame e argento: ad Olimpia, città sacra agli dei, l’oro sembra essere terminato. Lo sfarzo faraonico di queste celebrazioni non ha più senso e l’Olimpiade torna ad essere specchio fedele della storia quotidiana. In questo senso lo sport non ha mai cambiato il mondo.
Forse stavolta aiuta a comprenderlo un po’ meglio.

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