Come gole riarse in cerca d’acqua: accatastati uno sull’altro, accovacciati uno accanto all’altro, sequestrati in massa dalle parole di un Rabbì troppo recalcitrante alle sciocchezze del tempo. Lo cercano perchè un Uomo che sappia parlare così mai il mondo l’aveva incrociato: parole che diventano storia, attimi dilatati nel tempo, spazi di silenzio che accolgono le miserie dell’umano. Domenica scorsa avevano sete di parole, oggi hanno fame di cibo: è il tramonto del sole, l’ora che volge al desìo di una giornata. Per tanti, forse, di un’intera vita. Stavolta, oltre che essere senza pastore, sono anche pecore affamate. Lo intuiscono i discepoli, forse ne avvertono un pizzico d’angoscia perchè un popolo in preda alla fame diventa una bomba ad orologeria. L’avverte Gesù quell’angoscia rattrappita nel cuore degli amici suoi. E insegna loro a gestire un’emergenza: “dove possiamo comprare il pane perchè costoro abbiano da mangiare?” (liturgia della XVII^ domenica del tempo ordinario) Lo chiede Lui, la stessa Voce che fra poco sussurrerà al Cielo ricevendo una risposta moltiplicata e inaspettata. Lo chiede perchè vuol far loro capire che non c’è da temere, loro hanno già tutto: c’é Lui, c’è la smisurata sproporzione tra ciò che tengono e ciò che servirebbe, c’è il contesto giusto per ammaestrare il popolo e loro stessi alla logica del Cielo.
“Fateli sedere”: è un comando amabile, un azzardato invito a prendere il largo, ad intravedere reti piene laddove non sembra esserci pesce alcuno. O ceste straripanti in mancanza di un fornaio all’opera. La richiesta entra nell’incavo delle orecchie di un adolescente, poco più che un pezzo di ragazzo: un ragazzo senza nome ma con cinque pani d’orzo – il pane dei poveri – e due pesci: una merenda infilata forse da una madre premurosa. Sembrano poco più di nulla: oltre cinquemila gole sono in attesa di sazietà. Eppure è il poco del granello di senape, il poco della vedova accasata nella penombra del tempio, il poco di età del Davide pastore o del Giosuè condottiero. Il poco di Maria, umile presenza di una Galilea di periferia. Il poco che contiene il tutto qualora accetti di lasciarsi giocare dalle mani giuste. Non tiene nemmeno il nome quel ragazzo: eppure scrisse la storia con quell’ingenuità sconsiderata tipica della giovinezza. Tutti vedevano la sproporzione, lui ne tentò la scalata: “tengo poco più di nulla. Ma è sempre meglio di niente. Proviamoci”. A rimpiangere l’oscurità ci proveranno già in molti: quell’ex-falegname apprendista carpentiere nei mille giorni che dal Lago di Genesareth condurranno al Calvario insegnerà che sarà sempre meglio accendere un fiammifero che contestare l’oscurità. Perchè ciò che abbellisce un deserto è che nasconde un pozzo in qualche luogo.
Ma mi guardò e rispose al mio pensiero:
“Anch’io ho sete… cerchiamo un pozzo…”
Ebbi un gesto di stanchezza: è assurdo cercare un pozzo, a caso, nell’immensità del deserto. Tuttavia ci mettemmo in cammino.
Dopo aver camminato per ore in silenzio, venne la notte, e le stelle cominciarono ad accendersi. Le vedevo come in un sogno, attraverso alla febbre che mi era venuta per la sete. Le parole del piccolo principe danzavano nella mia memoria.
“Hai sete anche tu?” gli domandai.
Ma non rispose alla mia domanda. Mi disse semplicemente:
“Un po’ d’acqua può far bene anche al cuore…”
Non compresi la sua risposta, ma stetti zitto… sapevo bene che non bisognava interrogarlo.
Era stanco. Si sedette. Mi sedetti accanto a lui.
E dopo un silenzio disse ancora:
“Le stelle sono belle per un fiore che non si vede…”
Risposi: “Già”, e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna.
“Il deserto è bello”, soggiunse.
Ed era vero. Mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. E tuttavia qualche cosa risplende in silenzio…
“Ciò che abbellisce il deserto”, disse il piccolo principe, “è che nasconde un pozzo in qualche luogo…”
Fui sorpreso di capire d’un tratto quella misteriosa irradiazione della sabbia. Quando ero piccolo abitavo in una casa antica, e la leggenda raccontava che c’era un tesoro nascosto.
(A. de Saint-Exupery, Il piccolo principe, cap. XIV)
Alza gli occhi il Maestro: occhi capaci di immaginare una storia diversa, un presente accogliente, un Bellezza insospettata. La merenda diventa sazietà: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Temevano il linciaggio per mancanza di cibo, sono indaffarati per raccattare il superfluo. Con un’inattesa scoperta: ogni cosa dipende dalle mani in cui si trova. Figurarsi: adesso lo vogliono fare Re! Perchè un Uomo così risolve i problemi ad oltranza, spiana la strada, assicura il futuro a più generazioni. Nasce qui, sul limitare di un campo pieno di gente con la pancia piena, il fraintendimento che condurrà l’Uomo della Moltiplicazione al patibolo del Calvario. Lui chiede il poco – dei talenti, delle forze, dell’intelligenza – per poter compiere il miracolo dell’esuberanza. La gente capisce il contrario: “abbiamo finito di tribolare, questo facciamolo Re”. E’ dai tempi di Erode che un Dio fantoccio – o tutt’alpiù funambolo e riccioluto – raccoglie consensi ad oltranza; ma non è il Gesù dei Vangeli. Quello che non sarebbe poi così difficile da seguire perchè non chiede troppo. E, ad essere sinceri, non chiede nemmeno molto. Chiede semplicemente tutto. Per farci capire che forse quello che cerchiamo altrove è già in mano nostra. Il resto dipende dalle mani con le quali sceglieremo di collaborare.
Cinque pani e due pesci: sembravano nulla in principio. Basterebbe non gufare.