Come pecore senza pastore. O come le tristi reti del primo mare di Galilea: come madri che nutrono figli, come i gigli che crescono sul limitare del campo. Oppure come viandanti senza meta ò grembi senza prole. Sono pesanti le metafore della Scrittura Sacra: velocissime e inaspettate, feroci e gaudenti, leggere e pesantissime. Il tempo di toccarle e scompaiono: reggono fin tanto che s’accende il guizzo di ciò che volevano trasportare. Quando diventano scontate, non sono più metafore. Loro nascono per raccogliere e poi diffondere, ospitare per rilanciare, aprire per far splendere. Non poteva scegliere che le metafore l’Eterno per calarsi e farsi comprendere nel tempo.
“Come pecore senza pastore” (Mc 6,30-34). E pure sfinite: cosa c’è di peggio in letteratura per dipingere un gregge e per aumentare l’ansia del pastore? I pastori sono allevatori, i pascoli all’aria aperta sono i loro monolocali popolati di stelle, briganti e predatori (liturgia della XVI^ domenica del tempo ordinario). Ascoltano per migliaia di notti la litania fumante dalla gola di bronzo del leone. Il pastore sa mettersi nel cuore del leone per conoscere la debolezza che nasconde, le sue orecchie contengono, trattengono. In terra d’Israele puoi anche essere pescatore – Gesù stesso, nato tra i pastori, preferirà il popolo dei pescatori – ma non puoi scrollarti di dosso l’inconfondibile odore del gregge. Partiti senza bisaccia né bastone ma solo con un amico a fare da compagno, oggi gli apostoli raccontano al Rabbì l’accaduto, i miracoli accorsi lungo le strade di Palestina, i barlumi di Regno organizzati nelle fessure della vita quotidiana. E Lui li rincuore, li ascolta, li obbliga al riposo: “Venire in disparte voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’. Non avevano nemmeno il tempo di mangiare: la gente li cercava, li pedinava, li inseguiva ovunque. Troppo grande era la sete di Cielo per lasciare andare quei cantori della speranza. Era un manipolo di sognatori capaci di far cambiare le vedute al punto tale da riscrivere intere esistenze. Di ciechi e quant’altro.
Un giorno, un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta: “Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete, poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase. Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto. Il pubblicitario rispose: “Niente che non fosse vero! Ho solo riscritto il tuo in maniera diversa”, sorrise e andò via. Il non vedente non seppe mai che ora sul suo cartello c’era scritto: “Oggi è primavera ed io non la posso vedere”.
Oggi tentano l’attraversata, la scappatoia, un bricolo di nascondimento per ricaricare le pile: niente da fare, li avvistano e li precedono. Dura vita per chi da Lui è chiamato ad annunciare la Bellezza. E stavolta prende in mano Lui le redini: li ammaestra, fa di Se stesso un’anfratto di ospitalità, li fa sedere nella sua amabile presenza e li rincuora. Si commuove della loro spossatezza e del loro sfinimento, s’accorge che i pastori se ne sono andati e il gregge è rimasto orfano di loro. S’accorge subito per quella capacità inimitabile di leggere le sfumature sul volto di ognuno: non esiste la folla per Lui, esiste la creatura uscita dalle sue mani, quell’unico e irripetibile mistero di tenerezza. S’accorge che sono senza pastori, nonostante il suo fosse un popolo rinomato per la pastorizia. Come a dire: ci sono i pastori, ma manca chi fa il pastore. Ma parla di ieri o di oggi? Forse che anche oggi nella Chiesa i pastori ci sono ma manca l’arte del pastore? Cioè conta più l’irrigidimento che la creatività, il bastone dell’autorità più che la carezza dell’autorevolezza, la tradizione a scapito dell’avventura, il servilismo dell’obbedienza? Il “si è sempre fatto così” a scapito del “tentiamo di prendere il laargo”? La stanchezza prevale sulla fantasia? Il management sulla pastorale? L’abitudine sulla passione? Il bamboleggiamento sulla severità? Il rattoppo sul ricamo? Il 5 per mille sull’anima che invoca aiuto? Non mancano i funzionari, ne abbiamo sin troppi: manca la passione del pastore. E il gregge l’avverte. Si dis-innamora, si s-fiducia, si dimette. Impazzisce e sogna di diventare lui pastore: s’appropria del bastone, imita la voce, s’accolla la responsabilità della distruzione. E così nasce un gregge di pastori senza pecore.
Li ospita sulle sponde di un lago perchè sono sfiniti: come uomini rassegnati alla stanchezza. Con un’avvisaglia pericolosa: “guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore” (Ger 23,1-6). Ovverosia: guai a coloro che giocheranno al cristianesimo. Perchè se le pecore sono sfinite e senza pastore, forse è anche perchè qualcuno ha pensato bene d’allearsi col leone, di darle loro in pasto per ottenere un monolocale nella lussuosa foresta. Quello che s’è udito agli orecchi, il Vangelo comanda di annunciarlo sopra i tetti, perchè tutti lo ascoltino. Dai tetti in su. Ma anche dai tetti in giù: nel caso qualcuno abbia dimenticato la funzione del pastore.
Meno male c’è rimasto Lui quaggiù.