Quando la malattia bussa alla tua porta, non puoi evitare di aprire. Potrai farlo controvoglia, potrai andare a pescare il coraggio da dove non sai neanche tu, oppure mantenere un muso lungo. Ma quando bussa, ti tocca aprire. È inevitabile.
Ma alle volte, il dolore bussa alla porta del vicino di casa. O, magari, dell’amico.
In un certo senso, quella è forse la situazione più brutta.
Perché chi crede, sa che non è tutto nelle proprie mani e può fare affidamento a Dio Ma buona parte, spesso sta nelle scelte dell’amico, nella sua capacità di reazione, nella sua forza. E questa non dipende da te.
In ogni caso, quando il dolore bussa alla porta di chi abita il tuo cuore è impossibile restare indifferenti. Ma su tutti, il sentimento che spicca con forza maggiore (e – in un certo senso – frustrante) è l’impotenza. Se non sei uno psicologo, ti domandi per ogni parola che dici se sei davvero incoraggiante. Ti interessi magari agli aspetti medici, ma se non sei un dottore, ti senti sempre un “escluso” dalla possibilità di capire veramente il problema; ti senti inutile. Guardi il tuo viso, le tue mani arrivare ad accarezzare persino l’idea che sia ingiusta la tua, di salute, vorresti barattarla in cambio di quella dell’amico, almeno per un momento; arriveresti a tanto, pur di poter sapere di riuscire ad essere almeno in parte un sollievo nei suoi confronti.
Eppure non si può. Ci sono cose che non è possibile fare veramente “insieme”. Si può accompagnare l’amico, affiancarsi all’amico, sostenere l’amico. Ma c’è un’insostituibilità di fondo che punge in modo lancinante, in situazioni come queste ‘rinfacciando’ la nostra piccolezza, la nostra in – capacità (cioè il nostro non essere in grado di contenere) il dolore.
In una scena famosa della Trilogia di Tolkien (Il Signore degli Anelli, il Ritorno del Re), Sam vede Frodo spossato, come incapace di reagire al peso che grava su di lui, alla responsabilità che può percepire solo chi ricopre il suo ruolo, quello di portatore dell’anello. All’inizio sembra annichilito, paralizzato dall’impotenza di fronte alla difficoltà dell’amico: vorrebbe aiutarlo ma non sa come fare. Poi ha l’intuizione: «Non posso portare l’Anello per Voi, ma posso portare Voi!». E, così dicendo, se lo prende in spalla.
Ecco, riporto questa scena perché credo che – forse – riesce ad essere una semplificazione iconografica oltremodo adatta a rappresentare una corretta chiave di lettura rispetto alle situazioni più spinose, quelle in cui il nostro cuore è turbato più dall’impotenza e dal senso di piccolezza e inadeguatezza che dalla preoccupazione per la concreta ed effettiva problematica da affrontare.
Non è possibile sostituirsi a nessuno, non è possibile provare il medesimo dolore. Eppure non è vero neppure che non sia possibile affiancarsi al dolore altrui e – in un certo senso – essere compagnia, e quindi – in un certo senso – viverlo insieme con chi lo sta subendo sulla propria pelle. Anche, se naturalmente, non nella stessa maniera.
Soli: di fronte alla malattia e al dolore si è soli davvero. È forse il momento in cui si sperimenta nel modo più bruciante il nostro essere strenuamente unici e irripetibili. C’è una malattia, ma ci sono milioni di malati. Nessuno uguale all’altro. Il mio dolore non è uguale al tuo, per il solo fatto che io non sono te. Né il dolore di nessuno può essere paragonabile a quello di chicchessia. Ognuno ha il proprio, di cui è portatore, come Frodo porta l’Anello. Tuttavia, nessuno è mai identificato totalmente con il proprio dolore o la propria malattia, così come non può esserlo con colpe o meriti. Eppure, tutte queste sono parte del nostro essere: ci caratterizzano, pur non essendo il nostro “tutto”.
Ci sono domande che affollano la nostra mente, ma la più struggente resta il grande classico: «Perché proprio lui (o lei)?». Come se ci fosse una strategia meritocratica nell’assegnazione delle malattie basata su un complesso calcolo di dignità morale, età ed esperienze accumulate, in base al quale assegnare in modo preciso ad ognuno secondo i propri meriti. Ma è davvero possibile considerare la malattia una sfiga o una “punizione”? E se fosse un’opportunità?
E se fosse che non siamo in grado di comprenderne pienamente il senso (intendo il senso complessivo delle cose, il senso per antonomasia)? Troppo semplicistica come spiegazione?
Non tutte le persone che sono state malate hanno fatto del proprio percorso una strada verso la santità. Anzi, ci sono alcune persone che la malattia ha solo fatto incarognire di più: con la vita, con Dio, con le persone, con il mondo intero. E allora, che dire? È mai possibile una spiegazione?
Parto da un dubbio, che è quello nei riguardi della comprensione umana. Ho grande stima dell’uomo e delle sue capacità, ma non sono affatto certa che sia possibile una vera e propria (quindi totale) comprensione della realtà, dello scibile. Qualcosa effettivamente sfugge al nostro controllo. Ci sono forze della natura che non riusciamo pienamente a prevedere, che ci atterriscono (come i terremoti). Ci sono microscopici organismi che ci consumano, portando malattie. La tecnologia ci dà l’ebbrezza dell’onnipotenza, ma poi ci scopriamo più fragili dei gigli del campo!
Forse, solo in queste occasioni riscopriamo la speranza che può infondere la preghiera, in particolare quella di affidamento. Se Dio è un Padre buono, non può non conoscere i Suoi figli. Anzi, li chiama per nome… e se lo scrive sul palmo della mano, per averlo sempre innanzi agli occhi! E se li conosce, noi possiamo pregare non solo perché dia la forza a noi di stare vicino all’amico che soffre nel modo migliore (senza essere più stressanti della malattia!), ma anche perché l’amico possa trovare il conforto che cerca nel modo che gli corrisponde (anche se questo significa che questo conforto non venga da noi: ma il vero bene è capace di lasciare liberi!).
La mia sensazione è che solo la preghiera riesce a mitigare quel senso di inutilità che prende di fronte alla constatazione che la propria concreta utilità rasenta lo zero. Le nostre mani sono incapaci di operare, i nostri occhi incapaci di vedere quello di cui c’è bisogno, il nostro cuore incapace di amare secondo il cuore altrui, la nostra mente incapace di comprendere, le nostre parole (anche le migliori) sembrano così povere e vuote di significato in quei momenti. Insomma, tutto il nostro essere sembra fuori posto e totalmente inadeguato. Ma l’intuizione che spinge alla preghiera forse non è la certezza assoluta, ma quanto meno la speranza che possano esserci mani più sicure delle nostri, cuore più grande del nostro dove sentirsi accolti, mente più capace di grandi distanze, parole più profonde delle parole. Ecco perché pregare. È la fiducia che Qualcuno migliore di noi possa essere più utile di quanto ci rendiamo conto di poter essere noi, in quei momenti.
È possibile riscoprire la sensazione di poter fare qualcosa. In virtù della preghiera, ci si sente più “vicini”: e questo mi fa pensare che è possibile un’empatia tra anime che in un certo senso va a colmare la lacuna di quell’empatia dei corpi che nel momento del dolore personale è come se venisse a mancare, appunto per l’impossibilità di provare il medesimo dolore dell’altro.
Forse per qualcuno è pura follia, una fantasia di sognatori, una bella fiaba per vecchi e bambini.
Però… come mai, nel momento del bisogno, l’opzione della preghiera rispunta tra le ipotesi, pur di non lasciare nulla d’intentato, anche tra gli atei più convinti?