Come un camminatore sbilanciato: un passo nel marciapiede e l’altro nella strada, impossibilitato a trovare un equilibrio che gli possa dare quell’eleganza tipica di chi cammina con stile o, tutt’al più, di non procurarsi traumi alla schiena. Ai più potrebbe apparire così il rapporto tra i giovani e l’esperienza di fede che si consuma nelle parrocchie: con un piede nella nostalgia di Dio che alberga nei loro cuori, con l’altro nella difficoltà di imbattersi in esperienze comunitarie che appassionino la loro esistenza concreta. Sondaggi e conferenze, dibattiti e dossier, lettere pastorali e appassionate disquisizioni teologiche: cosa non si investe intellettualmente per cercare di uscire da questo vicolo cieco nel quale una parrocchia (e più parrocchie formano una Diocesi) si trova a piantare la sua tenda? D’estate i conti sembrano dalla nostra parte: frotte di ragazzini ai campi estivi, grest superaffollati, oratori troppo piccoli a volte. Poi, alla ripresa di settembre, il sospetto d’essere stati – preti compresi – nobili babysitter al servizio della collettività. Ben venga anche il ruolo di onesti “tappabuchi”, purchè questo non c’illuda che l’estate – o una piazza piena una volta all’anno – sia il riscatto di una pastorale giovanile al ritmo dei tempi. Sarà pur vero che il cristianesimo non si debba adattare al mondo ma che il mondo debba perfezionarsi in esso; è altrettanto registrato negli annali della storia, però, che troppo spesso la Chiesa ha dimenticato nelle sue proposte di “aggiornarsi” al destinatario al quale parlare. Più di qualcosa oggi ci fa sospettare che sia in atto un accanimento terapeutico fastidioso nei confronti delle proposte da rivolgere ai giovani. Un po’ come quando da bambini s’era costretti a bere controvoglia il Lisomucil e, per somministrartelo con meno fastidio, la mamma usava lo zuccherino. Il Lisomucil rimaneva, però, Lisomucil.
Domenica notte ho fatto un sogno: Cesare Prandelli docente di Pastorale Giovanile in una delle tante diocesi del Nord-Est. Dormano sonni tranquilli coloro che hanno il titolo in tasca: Facoltà e Diocesi per loro hanno riservato un contratto a tempo indeterminato. Ma ve lo immaginate un mister-docente che in Diocesi parli di estro e fantasia, di razionalità e di rischio, di creatività e di applicazione, di far convivere il Monsignore col cappellano, lo “sbarbatello” con il diplomatico navigato? Un incantatore di serpenti e un sergente che scende pure lui nell’arena? Un docente che dalla cattedra (non disdegnando poi di applicarlo in prima persona) s’addossi la responsabilità di investire sulle teste matte-da-legare, li convochi contro ogni logica, li provochi e li custodisca come appartenenti ad una razza geniale e in via d’estinzione? Temo una rivolta popolare, sopratutto laddove la tradizione, l’ordine e la disciplina hanno scavato un monolocale comodo ma troppo simile ad una cella di galera, dove nel tempo si scambia volentieri l’abat-jour con la luce del sole. Chi avverte la sedia in questo momento traballare potrà pur dire che prof. Prandelli non ha vinto nulla e del metodo teologico o delle strategie pastorali non conosce minimamente lo stile, il metodo e la funzione. Tutto vero: ma lui potrà pur sempre obiettare che in una squadra si può anche allenare senza schemi in testa. Ciò che conta è il mordente che ci metti attorno alle parole e quella capacità unica di parlare a chi nasce fuoriclasse. Solo così una truppa di atleti (o un presbiterio di preti) s’immoleranno volentieri al servizio di una squadra.
La sicurezza della schiavitù o il rischio della libertà? Un enigma che la teologia ci tramanda sin dall’antico Egitto. A parole la scelta è ovvia. Mister Prandelli sta tentando di tradurla in scelte concrete: per questo il mio rimarrà solo un sogno di mezza estate. Come antitodo ad una malinconia dilagante.