Non tutti hanno la fortuna di poter toccare con mano il mondo del carcere, senza essere finiti dietro le sbarre per aver compiuto qualche crimine. Ma a qualcuno capita, e penso che possa essere un aiuto guardare attraverso di lui per avvicinare delle persone e delle realtà che forse non vorremmo vedere, che spesso preferiamo non considerare, ma che non per questo smettono di interrogarci.

  1. Come definiresti la strada: risorsa, necessità, imprevisto, maledizione, benedizione o trappola?

carcere sbarre2 web--400x300La strada secondo me può essere tutto questo, ma la definizione è soggettiva, dipende dal modo in cui ci si approccia ad essa durante il cammino o passaggio. Si può essere attratti dalla strada quando si è giovani e sprovveduti per poi farla divenire una vera e propria “trappola”, oppure si può semplicemente viverla con il rispetto dovuto e sfruttare a proprio favore ogni esperienza vissuta. Dalla mia, posso dire di averla vista in modo molto cauto ma anche distaccato; mi sono dedicato alla musica e allo sport in maniera totale e questo mi ha aiutato a stare alla larga da traffici, in cui alle volte, sfortunatamente, finiscono giovani senza neanche volerlo davvero, ma solo a causa magari di cattivi esempi. Per questo ringrazio sempre la mia famiglia per essermi stata vicino.

  1. Cos’è la libertà, per te, e quale arricchimento (o visione diversa) ti è arrivata dall’esperienza che hai vissuto nel carcere di Rebibbia?

La libertà è il valore più sottovalutato dalle persone. Si nasce liberi, ma a volte non si pensa che si possa perdere questa condizione. Dopo l’esperienza a Rebibbia, mi sono resto conto di esser stato forse superficiale in passato, perché non ho mai dato alla libertà l’importanza che meritava, probabilmente perché ci si abitua (per fortuna) ad essa, ma bisogna essere coscienti degli imprevisti della vita.

  1. Che ruolo hanno l’ascolto, la curiosità, l’interesse per chi – come te – vive con la musica e per la musica?

La musica è vita, per questo la curiosità è alla base di entrambe nella stessa maniera. L’ascolto è importante quando viene fatto a 360 gradi. Nel momento in cui chi ascolta si immedesima nei testi o negli stati d’animo di un pezzo, allora nasce l’interesse per uno stile o una canzone. Studiare la cultura che c’è dietro un genere musicale però è sempre il modo di ottenere radici ben salde in qualsiasi genere.

  1. Quali sono le impressioni di maggior impatto che, ancora oggi ti sono rimaste, dell’incontro a Rebibbia con Giovanni Polizzi?

Ciò che più mi ha impressionato dell’incontro con Giovanni è stata la semplicità con la quale mi ha accolto. Mi aspettavo di trovare davanti uno “spaccone”, invece sembrava una persona comunissima di mezza età che si sentiva impacciata forse più di me davanti alle telecamere. La sincerità poi gli si leggeva negli occhi ed era palese che non vedesse l’ora di comunicare il suo messaggio.

 

  1. La capacità di mettere in discussione attese e aspettative: quanta ne richiede il confronto con realtà così impegnative, ma –  al contempo – così profondamente umane, come quella del carcere? Quanti pregiudizi e/o visioni distorte sono annullati dall’approccio diretto?

A mio avviso non è richiesta capacità di mettersi in gioco in questi casi, anzi parlerei più di apertura mentale. Si tende in generale a raffigurare i detenuti in maniera totalmente negativa, senza pensare appunto al fatto che alcuni di questi siano dentro per reati diversi, quindi più o meno gravi, e che molti di questi reati vengano da una condizione di disagio iniziata molto prima del trasgredire la legge. L’approccio diretto sgretola questi pregiudizi, perché subito ci si rende conto di misurarsi con persone normalissime che hanno certamente sbagliato, ma che stanno pagando per ciò che hanno fatto e ne sono consapevoli

  1. “Senza ricordi”: che sensazione ti ha lasciato vedere una stanza senza foto o altri oggetti che fossero portatori di ricordi? Come l’hai interpretato (voglia di tagliare con il passato, necessità di dimenticare il resto per rendere più vivibile un presente monotono oppure per costruire un futuro diverso…)?

Una stanza completamente priva di ricordi non è una stanza, come una casa senza mobili e porte, ha solo l’idea fisica di ciò che dovrebbe essere, ma non si può definire tale. Io non credo che dipenda dalla voglia di tagliare con il passato e quindi costruirne uno nuovo, ma dal fatto che quel posto rappresenti, oltre che il suo presente, anche il suo passato, visto che in cella Giovanni ha passato già più di 20 anni. I suoi ricordi più belli li ha tutti in mente, mentre quelli più vivi e recenti sono del carcere.

Evasione – Sbarre (documentario, RAI 2)
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  1. “Se l’avessi conosciuto fuori, non l’avrei mai detto che avesse quei reati sul groppone!”: questo il tuo commento a caldo. Un’espressione forte e realistica. Come mai, allora, c’è tanta diffidenza (basti pensare alla difficoltà immane, per un detenuto, di trovare un’azienda che lo assuma, al termine della pena detentiva), secondo te?

Questo sicuramente è un punto che fa discutere molto. In Italia non trovano un impiego neanche i giovani e addirittura tanti laureati sono a casa, figuriamoci i cosiddetti “ex galeotti”. Il lavoro è un problema per tutti in questo Paese e lo Stato dovrebbe impegnarsi nel creare nuovi posti. Chi esce da un carcere si trova a doversi rimettere in carreggiata, senza però avere la possibilità di essere assunto; dunque non gli resta che tornare a fare quello che faceva prima, cioè delinquere. Questa però non deve essere una scusante, anche perché con questo concetto tutti i disoccupati dovrebbero commettere reati e fortunatamente non è così. Il problema vero, secondo Giovanni, starebbe nel fatto che per lo Stato i detenuti siano l’ “immondizia” della società e che quindi vengano abbandonati al proprio destino, dentro ma anche dopo esser usciti.

  1.  “ Lo Stato ti abbandona a te stesso: questa è la cosa più brutta” dice Giovanni Polizzi. Lo Stato siamo anche noi, ciascuno di noi: è ipocrita pensare allo Stato solo ed esclusivamente come un’istituzione! Perché: chi vorrebbe un pregiudicato come vicino di casa? Chi sarebbe contento se uscisse con la propria figlia o sorella? Siamo sinceri! Secondo te, è possibile un cambiamento di mentalità nella società che possa far sentire i detenuti meno “abbandonati” o “rinnegati”?

Lo Stato come istituzione è l’unico in grado di fare veramente qualcosa per loro, ma sta anche a noi sensibilizzare le masse: il programma era stato ideato con questo intento infatti. Il vero intoppo è purtroppo la poca fiducia della gente nella giustizia. Oramai siamo un Paese che crede poco nelle Istituzioni (anche giustamente) spesso e volentieri. Io mi ritengo fortunato della possibilità che ho avuto con questo incontro, anche perché ne sono uscito più maturo e aperto mentalmente. Spero che tanti possano provare questa esperienza.

  1. “La galera serve a riflettere”. È necessario passare dalla galera, per capire cosa conti davvero? Capire cosa si perde può servire a chi ha ancora la libertà, m la sta mettendo in pericolo con una condotta al limite della legalità, oppure sbagliare è umano e le porte del carcere sono in agguato per chiunque, in un momento di fragilità, commette un errore di troppo?

Come dicevo prima, la vita è ricca di imprevisti. Tutti possono sbagliare e tutti possono finire in carcere, purtroppo, per reati chiaramente diversi. Per questo è importante sempre cercare, se possibile, di riflettere sul fatto che si stia barattando la propria libertà con una condizione di benessere che il più delle volte è vana o comunque non costante. Non credo che serva passare per il carcere per comprendere cosa conti davvero, ma purtroppo per qualcuno è stato necessario per riflettere sul senso della propria esistenza, come Giovanni ad esempio. “Il carcere mi ha cambiato”, mi ha detto, e io di cuore spero per lui che arrivi presto una seconda chance per dimostrarlo al mondo.

  1. “La responsabilità di tutto quello che è successo è sempre mia. Anche della morte dei miei genitori, anche se sono morti per malattia”. Queste parole rappresentano un messaggio forte e molto preciso, in un mondo che pare comunicare una libertà che è poter fare quello che si vuole. Giovanni ci mette tutti in guardia: ogni nostra libera scelta ha delle conseguenze: dirette e indirette. In che modo ti sei sentito interpellato da queste dichiarazioni?

Quelle sono state le parole di Giovanni che mi hanno toccato di più. Ritenersi responsabili di tutto ciò che accade al di fuori rappresenta un cambiamento completo, ma soprattutto un pentimento totale per tutti gli atti compiuti nel suo trascorso da fuorilegge. Il messaggio che ha lanciato in quel momento è stato forte e deciso: bisogna sempre rispettare chi ci ha dato tanto nella vita e riflettere sul fatto che quando si commette un errore così grande, spesso non siamo solo noi stessi a pagarne le conseguenze.

  1. “Tutti usiamo delle maschere, perché altrimenti siamo troppo deboli per andare avanti”. Impressionante quest’analisi del reale, specie se si considera che viene da chi, essendo “dietro le sbarre”, ne è, in un certo senso, “tagliato fuori”. A lui, il carcere è servito anche per trovare autenticità? Per noi altri, c’è speranza? È possibile essere autentici, senza vivere fuori dal mondo?

Le sue frasi erano sincere, per questo autentiche. Penso che si riesca ad essere autentici quando si dice la verità, anche in un momento in cui questo potrebbe andare a nostro sfavore. Comunque ritengo che l’autenticità la porti in alcuni casi solamente l’esperienza e la saggezza acquisite durante il percorso di vita. Con gli anni le maschere cadono e si resta se stessi, dopo essere un po’ più stanchi di indossarle ed aver condiviso tanto insieme agli altri.

  1. “Ho paura ad affrontare il caos del mondo esterno”. Colpisce quest’affermazione di Giovanni e al contempo la trovo affascinante. Quanti hanno paura di chi è in carcere. Quanti temono di finirci dentro? È stupefacente toccare con mano come anche i “lupi” possano provare paura e disagio. Questa curiosa e inattesa somiglianza che ci fa sentire più vicini può essere un primo passo verso un dialogo che ci faccia crescere?

Questo concetto di Giovanni colpisce perché nessuno può pensare che per qualcuno il carcere sia diventata una “casa”. Per lui in qualche modo sì, si è abituato ad un tipo di vita ed è spaventato da ciò che potrebbe trovare all’esterno. Certamente questo è un punto d’incontro con la gente prevenuta, che di solito è spaventata dagli ex detenuti. Giovanni è la persona giusta per poter avvicinare le parti e far comprendere a tutti veramente il significato di essere uomini, prima che avvocati, disoccupati, medici, idraulici o ladri. L’importante è non perdere mai di vista il fulcro del discorso, a tutti va data la possibilità di cambiare.

  1. “Per migliorare, bisogna anche rischiare”. Mi piace concludere con questo motto – insegnamento. Immagino e spero che tutti si voglia migliorare. Ma… fino a quanto è lecito rischiare per migliorare? Vale sempre la pena cercare di vivere all’altezza dei propri sogni? Pensi che la musica possa rappresentare un sostegno valido, in special modo per chi è cresciuto in strada, per non arrendersi e continuare a lottare per una vita più giusta, che rispecchi la preziosità dell’essere umano?

Non credo che si rischi quando si tenta di migliorare, basta farlo attraverso i canali giusti: ascoltando e rispettando gli altri. Chi lo avrebbe mai detto che dopo anni di università avrei imparato così tanto da un carcerato? Beh io posso dirlo, quel giorno ho ricevuto dalla vita una delle più grandi lezioni e sarò sempre grato a Giovanni. Per migliorare bisogna solo essere pronti a farlo, armati di umiltà, spirito di sacrificio e tanta voglia di fare. Non saprei dirvi fino a quanto possa essere lecito, ma il più possibile non guasta mai, se è per una giusta causa.

Grazie a Gianluca aka Puro, Mc del litorale romano (Gianluca a.k.a. Puro, componente del Miracolo Italiano, crew hip hop del litorale romano)

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