Come un contropiede al novantesimo: quando meno te l’aspetti loro scattano e ti ribaltano una partita, o forse un’opinione ch’era divenuta certezza con lo scorrere del tempo. “Vorrei rendere utile la popolazione carceraria, quella non pericolosa, per i lavori di ripresa del territorio” erano state le parole del ministro Severino dopo aver visitato l’istituto penitenziario della Dozza a Bologna. E’ bastato lo sguardo di una donna attraverso le sbarre, camminando per i corridoi e stringendo qualche mano per accorgersi che lì dentro – e in tutte le carceri italiane – alberga un’energia umana smisurata. Aveva specificato che si trattava della popolazione “non pericolosa”, ovverosia gli artefici di piccoli atti di sabotaggio, furti e delitti di basso profilo: non si trattava certamente di far abbandonare le celle a massimi esponenti della malavita nazionale. Eppure non è bastato per arginare il “luogocomunismo” dilagante, anche in piena situazione di emergenza: “non li vogliamo”, hanno gridato al TG nazionale più di qualche abitante delle zone interessate. Come dire: preferiamo l’addiaccio all’aiuto di quegli avanzi di galera.
Dopo questo rifiuto a Padova, dietro le sbarre del carcere di massima sicurezza Due Palazzi, è partito il tam-tam del riscatto. Una rivolta silenziosa, spontanea, umanitaria; inarrestabile come appare il bene quand’è frutto di un cuore impossibilitato ad amare. Han raccolto le firme, han solidarizzato tra popoli di religioni diverse, per una volta pure loro hanno messo da parte i delitti e hanno cercato l’uomo nascosto dietro, per interpellarlo al cuore. In un foglio domenica a messa campeggiavano le loro firme e l’importo che ciascuno devolveva. Come dire: “se non ci vogliono, accettino il nostro gesto d’amore”. Là dentro non ci sono i soldi per la carta igienica e il sapone, per il detersivo e per l’acqua calda: ultimamente scarseggia pure il cibo e la speranza umana. Ma nell’abisso più oscuro della malvagità, splende ancora la fiamma dell’Amore. Il conto corrente di Viktor, ragazzo dalla pelle nera approdato sulle coste italiane, segnalava 1,75 euro. Li ha devoluti tutti per i terremotati: da domattina non potrà più nemmeno comprarsi il dentifricio o telefonare a casa. Più di qualcuno s’è accorto che quel gesto era il memoriale evangelico della povera vedova che lo sguardo del Messia additò come esempio dell’Amore che non calcola.
Il terremoto è una calamità naturale. Ma del terremoto se ne può parlare anche per metafora, per additare uno sconquasso interiore, una distruzione generale, un disastro dell’umano. Il carcerato conosce il peso delle macerie: per averle create e per doverle ora ripagare con la detenzione; ma nulla può arrestare la grazia di Dio all’opera nei momenti più insperati e disattesi. Perchè, schiacciato dal peso delle macerie e dei rimorsi, là dentro qualcuno ha intuito che saranno i gesti d’amore le uniche costruzioni che reggeranno alle calamità naturali e alle presunte certezze dell’uomo. E’ bastata la proposta intelligente e alquanto azzardata di una donna che conosce la Costituzione e il Codice Penale per riaccendere il vecchio adagio della chiave della cella da gettare in mare. Eppure basterebbe dare loro una piccola chance per accorgersi che la chiave nel mare non riconcilia l’uomo con gli uomini. E forse nemmeno l’uomo con se stesso. Perchè dietro le sbarre è solo rimanendo a contatto con il bene che l’uomo riconosce e si distanzia dal male fatto. E tra coloro che inciampano c’è ancora chi continua a credere nell’Amore. A tal punto che ogni tanto si rialzano e ci provano a farlo risplendere. Nel nome di Lui.
(Avvenire, 13 giugno 2012)