12_Leggenda_462_0I risvolti di un cammeo su un capolavoro di inestimabile valore: la leggenda del Grande Inquisitore è un racconto, incorniciato in un capitolo (il capitolo quinto, del libro quinto), del romanzo I fratelli Karamazov, di Fedor M. Dostoevskij, affresco di caratteri umani e virtù divine, dove sacro e profano si mescolano, tra le vie di una Russia dal cuore inquieto, che è figura dell’umanità intera, di ogni tempo e di ogni luogo.

Questo racconto si inserisce all’interno del dialogo tra Ivan e Alesa, il secondo e il terzogenito, ateo e comunista il primo, profondamente religioso il secondo: si tratta di un racconto non scritto, ideato da Ivan e raccontato oralmente ad Alesa, in occasione di un incontro col fratello.

Un dialogo serratissimo. Anche se appare, fin da subito, impari. Infatti chi sciorina parole, motivazioni, discorsi, giustificazioni è il vecchio inquisitore. Il Cristo tace: ascolta, mansueto. Ma è ben lontano dall’essere una figura fragile, sconfitta. Ha una forza che trascende la forza della violenza: trasuda fortezza d’animo e convinzione animosa, ben lontana dal fanatismo di chi si sente investito dell’incarico di salvare il mondo. A spese d’altri, naturalmente. Cristo l’ha salvato davvero, ma a spese proprie. Ecco la differenza; ed ecco anche da dove nasce quella sua libertà senza pari, che scompiglia le convinzioni (e le convenzioni) dell’inquisitore, il quale – con ogni probabilità – è proprio sinceramente convinto di agire in nome del Bene e della Giustizia. Si sente, in un certo qual modo, un benefattore del popolo: si presenta come una sorta di “illuminato”, chiamato a  condurre un gregge di persone che ameranno l’idea – così sostiene –  di poter avere una dittatura spirituale che deciderà, al posto loro, cosa sia bene e cosa sia male, cosa tollerare e cosa reprimere. In nome della felicità universale, naturalmente. Con queste parole, infatti, l’Inquisitore si rivolge a Gesù: “[…] con noi tutti saranno felici, e non si ribelleranno più, e non si ammazzeranno più fra di loro, per tutta la terra, come hanno fatto al tempo della Tua libertà. Noi li convinceremo che saranno liberi soltanto quando rinunzieranno alla loro libertà e si sottometteranno a noi. […] L’apprezzeranno anche troppo che cosa significa sottomettersi una volta per sempre! E finché gli uomini non capiranno questo, saranno infelici. […] Noi daremo loro l’umile, quieta felicità degli essere deboli, come appunto sono stati creati”.

L’azione si svolge in Spagna, nella Siviglia del periodo della più aspra Inquisizione. È questo il terreno in cui si trovano a lottare, in un duello faccia a faccia, il Cristo e l’Inquisitore, personaggi antitetici, drammaticamente protagonisti e antagonisti nello stesso tempo: “fratelli e nemici mortali”, li definisce Zagrebelsky. Mentre imperversa l’inquisizione, Cristo torna per un attimo sulla terra, per amare il suo popolo sofferente e dolorante. E come, nella Palestina di tanti secoli prima, si trova a risuscitare una fanciulla con le parole «Talità kumi», le uniche parole che pronuncerà, durante l’intero racconto. E, allora, come nella Palestina di tanti secoli prima, si troverà ad avversare il potere religioso e un autoritarismo vanaglorioso. Quel suo gesto basta per essere considerato eretico, non rispettoso dell’ortodossia. Condannato per troppo amore: il Grande Inquisitore, infatti, perplesso dal sommovimento di cui è causa quest’uomo, decide di farlo portare via dalle guardie.

L’Inquisitore, fa notare Tatjana Kasatkina, “difende una tentazione che esiste da sempre, quella di consegnarci alle regole e di rivendicarne la validità per tutti. Chi le rispetta fa la cosa giusta ed è buono, chi non le rispetta è cattivo. Per lottare contro i cattivi che non mettono in pratica le regole, abbiamo tentato di creare paradisi umani che sono diventati degli inferni. Il grande inquisitore ci mostra con rigorosa coerenza non solo tutti i punti deboli della natura umana, ma anche dove porta la strada della nostra tentazione. Per questo dobbiamo «ringraziarlo». In fondo a questa via, l’uomo può trovare soltanto il nulla. Invece l’unica legge del cristiano, dice Dostoevskij, è quella di imitare Cristo”.

È lungo il dialogo dell’Inquisitore, che è solo apparentemente un monologo: perché si percepisce, netto e distinto, l’ascolto profondo e attento del Cristo, che lo guarda e tace, fino all’inattesa conclusione finale, che cambia le carte in tavola.

L’unica risposta è un bacio. Un bacio che, sottolinea Zagrebelsky, “non è un atto unilaterale del Cristo. Il vecchio reagisce, le sue labbra esangui hanno un tremito. Non rimane passivo; una comunicazione, tra i due, avviene. Il Cristo viene a quel punto liberato, a patto che non ritorni mai più. Viene rimandato non da dove era venuto, ma nelle oscure vie della città, cioè in mezzo agli uomini”.

Questo il colpo di scena finale, e in un certo senso geniale, che Fedor Dostoevskij mette in atto tramite le labbra di Ivan Fedorovic Karamazov: Cristo, Via, Verità e Vita resta vivo in mezzo a noi, tra la strade più malfamate e meno sicure, nei luoghi meno eleganti, nonostante il tentativo di imbrigliarlo in legalismi sterili che anestetizzano la forza liberante del suo Amore.

Nello stile di Dostoevskij, che è fortemente narrativo, dialogante e interrogativo, anche quando espone tesi filosofico-esistenziali (nate spesso da esperienze di dolore personale, una su tutte la perdita del figlio epilettico in tenera età, di cui si è sentito subitamente primo responsabile), il racconto del Grande Inquisitore, ricco di simboli e di richiami, si rivela un’interrogazione profonda al cuore dell’uomo, quasi un ultimatum. Abbiamo il coraggio di scegliere la libertà che ci offre Cristo o preferiamo il quieto vivere di chi lascia la propria libertà per lasciare guidare da altri, che spesso sono “ciechi e guide di ciechi”? (Mt 15,14)?

A volte il rischio, per chi si professa cristiano, è quello di diventare un asettico esecutore di precetti, dimenticandosi di cercare il volto di Cristo. Non solo… Il Dio della libertà, che pone estrema fiducia nella sua creatura, affida all’uomo un compito estremamente impegnativo: “essere” il volto di Cristo sulla Terra.

Ma anche chi non si professa cristiano ha i suoi rischi da correre, naturalmente; anche lui rischia di essere vittima di una falsa libertà da inseguire, salvo poi ritrovarsi schiavo in catene, con la beffa d’illudersi libero. Perché, molto spesso, dopo aver lasciato Cristo in cerca di libertà, ci si ritrova meno liberi, imprigionati da ideologie di ogni titolo che, a vario titolo, in modo più o meno subdolo, cercano d’installarsi nella propria vita, carpendo la libertà a prezzo di un qualche “pezzo di pane”.

 

 

NOTA – Le citazioni delle interpretazioni del racconto sono tratte da:
La grande lezione dell’Inquisitore ai cristiani
Il “patto” tra Cristo e il Grande Inquisitore

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