bambino-capricciosoL’episodio tra il giovane giocatore Ljiajic e l’allenatore della Fiorentina Delio Rossi ha il valore dell’apertura di un vaso di Pandora che ci tocca molto più da vicino di quanto immagineremmo a prima vista.

Condivido: la violenza non risolve nulla, la violenza è da condannare, non è possibile giustificare alcuna reazione violenta. Lo dice anche Di Canio, Rossi è stato fin troppo pacato; e apre uno spiraglio che ci fa presagire dove nasca l’intoppo: “Questi ragazzini che guadagnano milioni di euro e che si sentono uomini quando vanno in giro con il macchinone e o l’orologione, devono essere uomini anche nell’approccio alla vita e al lavoro. Devono crescere in fretta e imparare l’educazione in fretta perché anche loro fanno parte di questo circo. Altrimenti qualche schiaffone gli fa bene”. Intuisco già il contraddittorio: Di Canio non fa testo, è rimasto nella storia del calcio per essere una testa calda. Ok, superiamo questo primo stadio di indignazione, fomentata da sfiducia preconcetta nei confronti di Di Canio? Lasciamo stare le persone, che possono sbagliare, e concentriamoci sull’episodio, su quello che evidenzia e su cosa possa insegnarci.

Non è lo spettacolo peggiore che ci ha regalato il calcio in questi anni infausti, segnati più da scandali, liti, contese giudiziarie, doping, scommesse che da Bellezza da vedere sul campo, per estasiare gli occhi con giocate entusiasmanti e fuori dal comune, da provare ad imitare tra amici (con risultati spesso deludenti, o comunque inferiori alle aspettative).

Anzi, probabilmente –  in proporzione – non è neppure un episodio più grave degli altri: ormai potremmo tranquillamente considerarlo “ordinaria amministrazione”: l’ennesimo episodio poco edificante legato al mondo del pallone.

 

Tuttavia, dietro a questa vicenda ce ne sono migliaia di altre, cui siamo ormai abituati e che, per questo motivo, passano pressoché inosservate ai nostri occhi. Sono ormai quotidiane scene di ordinaria follia, di fronte a una sconfitta, o una semplice sostituzione di un giocatore. E parlo di reazioni di chi scende in campo (pagato per farlo!), non di quelle dei tifosi sugli spalti! La sociologia insegna come (spesso) l’inserimento in un gruppo ampio, rischia di sciogliere i freni inibitori, far sentire onnipotente, ma al contempo, privi di ogni responsabilità sulle conseguenze delle proprie azioni: tutto ciò se non giustifica, spiega (almeno in parte) determinati eccessi legati al tifo, in particolar modo negli stadi di calcio. Nel caso dei calciatori, la valutazione sul loro comportamento è quindi necessariamente diversa perché, in un certo senso, non ha alibi. Sono in campo, sono professionisti, sono tenuti ad un comportamento rispettoso nei confronti di se stessi, dei compagni di squadra, degli avversari, dell’allenatore, dell’arbitro e dei tifosi. Come sempre accade, però, nulla nasce dal caso, ma tutto ha una genesi, con radici più o meno profonde nel passato.

Mi accorgo, con un rammarico misto a incredula meraviglia, di quanto spesso piccoli calciatori (agli occhi dei parenti sicuramente campioncini in erba di indubbio valore) siano troppo spesso giustificati, difesi di fronte all’allenatore, che – al contrario – non ha possibilità di errore ed è immancabilmente il primo sul banco degli imputati. E non è così solo nel calcio, beninteso!

C’è purtroppo una serpeggiante tendenza a mettere su un piedistallo i figli (fenomeno in parte normale e naturale, in verità: come si dice, i figli sono pezzi di cuore!): forse per compensare il fatto che oggi in famiglia si passa sempre meno tempo insieme, si è tentati di pensare che correggere i figli comprometta il nostro rapporto con loro, ci renda meno “meritevoli” del loro amore. Sfugge un dettaglio: mai come nell’amore, e in special modo quello che si crea tra genitori e figli (e, di riflesso, una cosa simile si può dire anche in ogni altro rapporto educativo), non ci sono meriti e colpe a stabilire quantità e qualità. Un figlio non lo scegli, lo ami e basta. Ti è affidato e sei chiamato a prendertene cura, perché da cucciolo d’uomo diventi un uomo, capace di “stare in piedi” per conto proprio, senza il tuo aiuto, che gli hai garantito fin dalla più tenera età.

Invece, spesso, il commento che si registra, di fronte alle “marachelle” di figli irrequieti e scapestrati è un “crescerà”… di inevitabile rassegnazione, come se fosse possibile che, da sé, tutto possa aggiustarsi. E quando poi gli anni iniziano a superare la doppia cifra e la doppia decina, quel “crescerà” suona come una beffa. Non si tratta solo del calcio: ma questo mondo, anche per il fatto di essere sotto i riflettori, amplifica e rende più evidenti magagne più generalizzate. Si sono ormai formate generazioni di “bambini viziati”, che non sono mai cresciuti davvero. Che vivono per i videogiochi, la nutella, la macchina potente e un desiderio smodato di possesso, rivolto ogni volta a qualcosa di nuovo, che è un’evoluzione di quei capricci infantili, che sono stati abituati a vedere soddisfatti. Sono generazioni intere cresciute senza sentire un “no”, incapaci di accettare, quindi, con serenità ogni “no” che la vita dà e darà loro. Rischiano di sentirsi dei frustrati, perché non si sono mai “allenati” ad accettare. E quindi non sanno accogliere neppure una sconfitta, una sostituzione o un rifiuto. Sanno accogliere solo i sì. Questo perché qualcuno ha pensato che fosse meglio aiutarli, spianare loro la strada, consentire loro di raggiungere tutto ciò che non era neanche un desiderio, ma una semplice voglia. Il risultato? Non hanno mai imparato il valore dei propri sogni. Non si rendono conto di cosa significhi combattere per essi e riesce loro quindi molto difficile stabilire delle priorità in ciò che vogliono veramente: è ormai diventato, per loro, indistinguibile una voglia da un desiderio, un sogno da un imperativo, una necessità da uno sfizio.

Per chi non ha mai avuto un rifiuto, tutto è da avere subito. Ogni proprio desiderio è una necessità. Anche se, oggettivamente, non è così. Solo così riesco a spiegarmi piagnistei infiniti, contestazioni inverosimili da parte di giovani adulti che avrebbero dovuto imparare da tempo le “regole del gioco” e dovrebbero quindi essere in grado di avere comportamenti professionali e adulti, in campo e fuori dal campo.

Aggiungiamo una cosa, un dettaglio, che non è solo un dettaglio, ma un particolare fondamentale. Delio Rossi ha chiesto scusa a tutti; cosa che ben pochi altri nomi altisonanti, guadagnatori di fior di miliardi, hanno avuto il coraggio di fare. Chiedere scusa è spesso considerato un gesto da deboli, da remissivi. Invece no: è un gesto di coraggio, di maturità che può permettersi solo chi è onesto con se stesso e con gli altri. Di più: è un gesto di fiducia; perché con l’ammissione della propria colpa, resta quanto meno implicita la speranza che, agli occhi altrui e propri, lo sbaglio commesso non sia più grande della propria persona, che sia – insomma – rimarginabile.

Per cui, concludendo: la violenza non è mai giustificabile. Neppure dalla provocazione. Ma la maleducata arroganza denota una ferita ancora maggiore: quella di chi non è riuscito a crescere, guardandosi allo specchio, in sincerità.

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