Nato tra i pastori di Betlemme, da grande Gesù corre verso l’acqua e i pescatori. I pastori sono allevatori, i pascoli all’aria aperta sono la loro stanza abitata da fuochi, stelle e predatori. Ascoltano per migliaia di notti la litania fumante dalla gola di bronzo del leone. Il pastore sa mettersi nel cuore del leone per conoscere la debolezza che nasconde, le sue orecchie contengono, trattengono. Così un tempo era l’organo dell’udito, prensile di parole, avido d’ascolto, l’organo di più alta fedeltà. I pastori migliori sconfinano verso il deserto, ne tentano i bordi, sentono la pioggia a molte miglia, fiutano l’odore della terra risvegliata. E’ compito del pastore conoscere il numero delle pecore e delle pecore riconoscerne la voce. In terra d’Israele puoi anche essere pescatore, ma non puoi scrollarti di dosso l’irrinunciabile, inseparabile, inconfondibile odore del gregge.
“Tutti coloro che sono venuti prima di me sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati” (liturgia della IV^ domenica di Pasqua) Sentilo! Assoluto, esigente, di un’arditezza quasi blasfema e irriverente questo Gesù. D’altronde era un uomo libero, di una libertà totale. Scendeva nelle strade, nelle piazze, nelle sinagoghe, nel Tempio, nelle case private, incrociava sguardi di prostitute e di briganti, di benestanti e di folli. Non sapeva cosa fossero i complessi! Per questo metteva alle strette, sbaragliava tutto e andava al sodo, se ne infischiava dei formalismi e delle convenzioni sociali. Non guardava in faccia a nessuno, ma parlava con autorità, mosso da estrema libertà. “Le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce”. In ogni occasione la voce del pastore garantisce ad ogni pecora del gregge la via per superare la prova. Rapporto di casta intimità (“entra per la porta”), sguardi intrecciati al singolare (“ad una ad una”), messaggi personalizzati (“le chiama per nome”), liriche scritte a quattro mani. Quella voce avrebbe accompagnato il popolo come una colonna di fumo che tratteggia la via, come un mare che si apre alla salvezza, come un tempio che custodisce preghiere. Dai pastori ai pescatori.
Nato pescatore, probabilmente Pietro non era tanto diverso da me, forse nemmeno da te. Impulsivo, testardo, apparentemente sicuro di sé, pieno di amore a parole per Gesù, ma sotto sotto un insicuro, con la paura di essere sommerso dalle onde e pronto a tradire se la testimonianza gli costava troppo. Guardalo oggi, in piedi a gridare il suo credo. Sbagliando, ha imparato: “sulla tua parola getto la mia vita”. Sbagliando, ti capisci! Se uno mi chiedesse: “Descriviti!”, con il sorriso ti direi che sono un buono a nulla. Un buono a nulla, ma capace di tutto, perché consapevole che, quanto più ci si abbandona in Dio, tanto più si riesce a migliorare la gente che ci sta attorno. Un ragazzo mi dice: “Copiando gli altri diventerò qualcuno anch’io”. Che menzogna: hai copiato, hai copiato e sei scoppiato. Ma non hai imparato la lezione. Continui a copiare, copiare, copiare e ti senti una “patacca”. “Perché vivere?” – mi chiedi. Sbagli! Per Chi vivere. E’ molto meglio! Se vivi per qualcosa hai sempre lo sguardo che s’aggancia con il tuo ombelico, guardi sempre e solo a te. Se vivi per Qualcuno esci da te, rischi la novità, percorri sentieri di novità, che profumano di grandezza. Se poi quel Qualcuno ha la lettera maiuscola, allora: in bocca al lupo! Perché quel Qualcuno ti fa uscire dal branco, richiede coraggio per camminare da soli, per camminare contro tutti, per incontrare, incontrare, incontrare. Certo, ci vuole follia, fantasia e…tanta fiducia. Pensa: Pietro e i suoi soci hanno lavorato tutta la notte, ma invano. Non hanno preso neanche un pesce. Gesù dice loro: “gettate la rete dalla parte destra della barca”. Pietro fece notare a Gesù che non aveva voglia di risalire sulla barca, andare al largo, con il sole a picco sul mare per non prendere niente. Era anche stanco. Tuttavia rispose con fermezza: “sulla tua parola getterò la rete”. In altre parole Pietro disse: “secondo me tu sbagli, non c’è pesce ma io vado contro la mia ragione, mi fido di te. Sulla tua parola getto la mia vita”.
Correva l’anno 1951. Giorgio La Pira fu eletto per la prima volta sindaco di Firenze. Subito domandò a ventun monasteri di clausura di pregare quotidianamente per il comune di Firenze. I monasteri aderirono volentieri. Nel discorso di insediamento disse: “Abbiamo ventun comunità puntate verso il cielo”. Ogni mattina si fermava a lungo a pregare prima di andare in municipio dove tante persone lo aspettavano con i loro problemi. Ripeteva: “Come potrei stare con questo popolo nel nome di Dio, se non stessi in preghiera con Dio?”.
A sogno alto, vita alta; a sogno basso, vita meschina.
Eppure nessuno può scegliere la vita al posto nostro.