“In ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese del Nordest”: è stato questo il titolo del convegno svoltosi domenica scorsa ad Aquileia e Grado vent’anni dopo il grande convegno del 1990. Un momento sinodale per le Chiese del Nordest chiamate ad interpretare i segni dei tempi e ad accettare le nuove sfide che la cultura e la società pongono di fronte agli occhi del cristiano d’oggi. Senza paura alcuna ma forti di una convinzione, quella che il cristianesimo non è sempre esistito ma è nato in un preciso momento della storia e ne sta condividendo un tratto. E’ iniziato quando Dio ha iniziato ad interessarsi in prima persona dell’uomo fino ad entrare come pietra di inciampo e occasione di speranza nella storia stessa. Un Dio che si è mantenuto giovane – che è il contrario di “adeguarsi” – scegliendo di non arroccarsi mai nella difesa di una immutabile presenza storica ma di stare al ritmo delle sfide che l’uomo di ogni tempo Gli poneva innanzi.
Che una Chiesa si interroghi è l’annuncio più bello e sconvolgente che l’uomo possa udire, laddove l’interrogarsi non appaia poi un trucco effimero di un maquillage a fior di pelle o un superficiale intervento di restauro conservativo. Fedeltà non è mai stato sinonimo di sopravvivenza ad oltranza ma di contestaizone rischiosa e paziente di certe forme acquisite nel tempo per renderle più adeguate all’uomo d’oggi. La stanchezza spirituale e l’atrofia religiosa di certe forme di pastorale usuratesi nel tempo – grazie anche ad un accanimento terapeutico appassionatamente sponsorizzato – chiedono oggi alla Chiesa qualcosa di più profondo di una semplice appartenenza associativa: se ci guardiamo attorno, preti compresi, intravediamo che la stanchezza ci sta disegnando sul volto tracce di una senilità precoce e assordante, il passo è diventato lento ed austero come quello dei vecchi e le poche scelte concrete che ancor oggi si ha il coraggio di firmare portano i tratti di chi è vissuto troppo a lungo per farsi ancora travolgere dall’entusiasmo giovanile. Cosichhè oggi i soliloqui presbiterali e le nostre amatissime veglie parrocchiali sono popolati più di nostalgie che di intuizioni profetiche e allarmanti. Per coloro che dicono – addetti ai lavori compresi – “quella di un tempo era la vera Chiesa, non quella di adesso” sarebbe auspicabile una riflessione con una mente più aperta: il cambiamento è costante e inevitabile, non possiamo pretendere che la vita cristiana e della Chiesa rimanga immutabile nelle sue forme per l’eternità. Essa diverrebbe un semplice cimelio del passato, atto a nutrire la nostalgia di chi non accetta la sfida di un Dio che chiede quotidianamente la paziente attesa di sapersi fare pane e storia per l’uomo di ogni tempo.
Il rischio a volte come Chiesa è quello di diventare i “rivenditori ufficiali” delle taglie richieste, finendo con l’atrofizzarci noi stessi e diventare prevedibili e senza scatti da innamorati. Qualche settimana fa il Vescovo di Padova incontrando un vicariato della Diocesi azzardò termini come “creatività e fantasia” come strumenti da adottare nel dialogo con l’uomo contemporaneo: due sillabe colorate e appassionanti, minacciose per i nostalgici e nostalgiche per i lottatori. Non bastano certo loro a fare di un inverno freddo una primavera ambiziosa ma rimangono all’orizzonte come piccolo segnale di uno Spirito che alle Chiese del NordEst rilancia la certezza che non ci può essere fedeltà senza rischio. Sopratutto oggi che la gente di mondo, più o meno, se ne sta infischiando della fede cristiana ma sa ancora interrogarsi laddove l’annuncio cristiano saprà toccare le corde dell’uomo con una proposta che sia prima di tutto umanizzante. E non esclusivamente moralizzante.