Santo_Volto_Gesu1_-_CopiaIl tempo della Quaresima e l’approssimarsi della Settimana Autentica, la Settimana Santa, rispolverano e rendono attuali antiche tradizioni, espressioni della religiosità popolare. Oltre alla via Crucis, riflessione meditata sulla Passione, troviamo una gran quantità di Sacre Rappresentazioni, molto diffuse soprattutto nel Sud Italia. Personaggio molto caro alla tradizione, per sé di dubbia storicità, è quello di Veronica. Si racconta che, sul velo che lei avrebbe utilizzato per detergere il volto di Cristo, durante la sua salita al Monte Calvario, sarebbe rimasta impressa l’effigie del Sacro Volto.

Nei Vangeli sono riportati schiaffi,  percosse, sputi, dileggi all’indirizzo di Cristo. Eppure manca questo episodio di delicatezza che andò a far compagnia a quelle cadute dal significato così profondamente simbolico. La caduta, come conseguenza del peccato, che sovrasta le spalle del Cristo, già piagate dai colpi di frusta; la caduta come sopraffazione (effimera) dell’Impero del Male, che sferra il suo attacco più duro all’umanità di Cristo, spingendolo a mettere in discussione la bontà del disegno del Padre.

Con Cristo, è in cammino il mondo intero. E, come in ogni percorso, anche (e soprattutto) il tragitto verso la Croce è ricco di domande, interrogativi, dubbi, perplessità, timori, scoraggiamenti che si addensano nella mente e nel cuore, rendendo il faticoso procedere più incerto di ogni stanchezza attribuibile al semplice affaticamento muscolare. È solo, in questa salita (i discepoli l’hanno abbandonato, le folle gli hanno voltato le spalle, non c’è alcuna autorità disposta a proteggerlo): come un ciclista che affronti un’ascesa in montagna. Eppure, non è veramente solo: quando l’asperità penetra nelle ossa, quando il desiderio di arrivare alla meta è sovrastato dal senso di disfatta che ha pervaso il cuore, quando il dubbio più inquinante è quello di non farcela. In quel momento, appena prima che la tentazione di gettare la spugna si concretizzi: proprio in quel momento, arriva una mano amica che dedica un’attenzione, un gesto d’affetto oppure uno sguardo di comprensione… A volte, basta così poco per non sentirsi soli! Se prestiamo attenzione, ci rendiamo conto che, molto spesso, anche nella nostra vita è stato o è o sarà così: a fronte di sconfitte, ingiustizie, delusioni, momenti di sconforto in cui sperimentiamo un abbandono esistenziale, arrivano quella mano, quello sguardo provvidenziali, capaci di risollevarci il cuore e farci rialzare la testa. Sono convinta che, tante volte, Dio si serva di tanti esseri umani (concreti, reali e tangibili) come si serve dei suoi angeli: per renderci più manifesto e comprensibile il Suo amore e per darci quella forza che ci impedisca di arrenderci, di fronte alle avversità che possono funestare la nostra vita!

 

Una mano che si avvicina, due sguardi che si incrociano: anche al giorno d’oggi, anzi – soprattutto, al giorno d’oggi – si fa ancora più pressante la necessità di riscoprire il volto dell’uomo, per restituirgli la sua primigenia dignità. Riscoprirlo, anche oltre la deturpazione estetica, oltre la logica del guardabile e dell’inguardabile, del bello e del brutto, dell’ammissibile e dell’inammissibile, dell’umano e dell’inumano. Perché, alle volte, di disumano ci sono solo i pregiudizi…

Abbiamo avuto due esempi recenti, pur se di epilogo diverso, nella stretta attualità: la prima immagine è Fakhra Younas, suicidatasi qualche giorno fa (aveva il viso sfigurato dall’acido, quale vendetta di un marito geloso; si era sottoposta a vari interventi di chirurgia plastica per cercare di riavere un volto ed era diventata simbolo della lotta per i diritti delle donne, specie nei paesi musulmani), la seconda immagine ce la regala invece Benedetto XVI, durante il suo significativo viaggio in Messico e a Cuba, quando a Léon, tra gli altri e senz’alcuna distinzione, incontra anche un bambino dal volto sfigurato da un incidente.

Dietro queste due immagini, c’è la storia dell’Uomo. Due sono le caratteristiche che ci mettono in relazione con il mondo. Il nostro nome e il nostro volto: costituiscono la nostra identità personale, ci descrivono nei documenti ufficiali. Dicono che esistiamo e, in un certo senso (riduttivo), fanno sapere a tutti chi siamo. Forse non ci facciamo caso, ma ogni volta che pronunciamo il nostro nome, comunichiamo un’informazione importantissima su di noi: il nome a cui siamo stati abituati a rispondere sin da bambini, associato a quel cognome che (salvo i casi di omonimia) ci preserva dalla confusione nei riguardi di chi ha un nome uguale al nostro. Ma non basta: nel momento in cui il nome è pronunciato, esso è associato dall’interlocutore al nostro volto, più ancora che al nostro corpo intero. Tanto che, più ancora che dal nostro ingrassare o dimagrire, i conoscenti che ci frequentano poco sono messi principalmente in difficoltà da un taglio di capelli diverso o da una nuova montatura di occhiali. La prima cosa che era cambiata agli schiavi, non a caso, era il nome: questo atto ne feriva la dignità, rendendoli – a tutti gli effetti – cose. Penso non sia dissimile il valore simbolico che contiene in sé lo sfregio al volto; è come dire: “Tu non esisti. Io ti cancello dalla mia vita!”. Questo evidenzia il motivo per il quale le ferite al volto, prima – e più – che essere fisiologiche, sono essenzialmente e profondamente psicologiche: per tale motivo necessitano, soprattutto, di una ricostruzione del sé e della propria, profonda, inscalfibile e imprescindibile dignità umana.

Il volto ha – da sempre – suscitato stupore, ammirazione. L’arte ha prodotto innumerevoli esempi di ritratti, che portano come soggetto principe proprio il viso. È sul volto che – complici i numerosissimi anche se piccoli muscoli facciali – risiede la maggior parte della nostra espressività, della nostra capacità e possibilità di esprimere emozioni, sensazioni e sentimenti.

Qualche volta, proprio un volto non rispondente alle aspettative rischia di diventare motivo di disagio, frustrazione, quando non senso di profonda ingiustizia (in particolare, come nel primo dei casi citati, quando la causa di ciò è voluta come sfregio personale imposto da altri). Senza dubbio, è imprescindibile purificare lo sguardo, per oltrepassare, anche con fatica – se necessario – quelle barriere estetico–cultural–sociali, di cui tutti (più o meno consapevolmente) subiamo l’influsso. Ma non basta: dobbiamo riscoprire il volto. Guardare l’uomo, e guardarlo a partire dal volto. Significa rispetto dell’interlocutore, attenzione all’interiorità, cura al singolo, disposizione primaria (in senso cronologico, gnoseologico e ontologico) al dialogo e all’ascolto.

In questa società del multitasking, urge riscoprire un ascolto “globale” della persona; un ascolto che sappia guardare negli occhi, comunicando quel desiderio educativo intenzionale, ardente e accorto, ben sintetizzato nel motto “I care” di don Lorenzo Milani. Perché, se ci tengo, m’importa davvero di te!

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