Trent’anni di ferialità, così tramanda la tradizione. Trent’anni di apparente silenzio, di quotidiano sudore, di umana fatica, di stupefacente normalità. Forse tranquillità, alternativamente interrotta da preoccupazioni, imprevisti, turbamenti. Come uno stagno, sul ciglio della strada, solo di tanto in tanto increspato dai passi veloci dei viandanti in cammino o dai sassi scagliati dalle diligenze, con malagrazia, nel loro incedere. Come le nostre famiglie, del resto: in balia a momenti di bonaccia oppure di maestrale, come barchette in mezzo al mare, che a volte paiono sul punto di affondare, inghiottite dai flutti e che invece, se l’Amore le ha avvinte, resistono quasi inspiegabilmente alle tempeste – pur inclinandosi, contorcendosi, frantumandosi… ma riuscendo a toccare, infine, la riva –.
E dentro una cornice di vita semplice, senza essere banale, è cresciuto Gesù.
Molto poco si sa di tutto questo: ma quanto trapela dai Vangeli è materiale sufficiente ad immaginare un quadro da dipingere con verosimiglianza, che rispecchi qualche sensazione, qualche emozione, qualche tratto di una vita vissuta, in una piccola cittadina della Giudea, provincia periferica di un impero romano aspirante all’universalità.
Dentro una casa come tante, in una cittadina come tante, si faceva grande un cucciolo d’uomo (che era il Figlio dell’uomo) ed imparava ad essere uomo, tra le mani operose di Maria e quelle laboriose di Giuseppe. Trovo difficile che abbia potuto ricevere grandi discorsi in casa, che possa aver appreso la storia o la filosofia, mentre è piuttosto probabile che abbia conosciuto la Parola di Dio (essendo una famiglia osservante) e che sia andato alla scuola del tempio. Si trattava tuttavia di una scuola di periferia, distante da Gerusalemme; e allora (come adesso) il prestigio degli uomini politici o religiosi decresce mano a mano che ci si allontana dal fulcro ideologico o amministrativo.
Forse, però, sono un po’ trascurati il valore e la formazione umana e spirituale che possono avere esercitato questi famosi anni di nascondimento, di vita semplice e familiare, di lavoro. Di assoluta normalità, profumata di santità. Sì, di quella santità che contorna le audaci imprese: quelle partite in sordina, senza riflettori puntati, ma che, nel loro percorso, si sono ingrossate come un fiume in piena.
Da una parte, troviamo Maria, donna feriale. Una donna che non ha fatto nulla per diventare santa, se non aprire il cuore allo Spirito e lasciarsi abitare in ogni gesto quotidiano. Perché ben poco si sa di lei, della sua vita a Nazareth, ma si può facilmente immaginare la sua vita di massaia, tra le mura domestiche, pulizie, cucina, qualche commissione, eventualmente qualche lavoro di cucito anche a favore di vicini di casa, parenti o conoscenti, oltre che per i familiari. Fili e tessuti, che ora rivediamo in arazzi della tradizione copta, ci ricordano che la nostra vita è un insieme di fili che si intersecano solo apparentemente senza un senso e che è fatica non comprendere e rimanere perplessi a guardare, in attesa che qualcuno ci spieghi il motivo di questi intrecci, belli ma misteriosi. Come la nostra vita!
Dall’altra, troviamo Giuseppe, uomo semplice e lineare. Con una bottega di falegname, dicono alcuni. Più spesso, però, si parla di carpentiere, che contiene un raggio semantico molto più ampio e interessante: non si tratta solo di fabbricare oggetti in legno, piccoli o grandi, destinati alla casa, ai grandi o ai più piccini; il carpentiere era un tuttofare che si occupava anche di piccole riparazioni domestiche: aggiustare una porta che cigola, limare un tavolo scheggiato, regolare l’altezza di una sedia… e molto altro ancora!
Tra trucioli e fili di tutti i colori, da rincorrere carponi, con gli occhi sgranati, incurante del disturbo al lavoro di mamma e papà, così avrà passato la prima infanzia. Tra pialla e legna da spaccare, da lavorare, da modellare avrà passato l’adolescenza e la giovinezza, imparando un mestiere con cui campare. Tra rammendi e scricchiolii, cresceva il Figlio dell’uomo, apprendendo, con gli occhi e con il cuore un aspetto importantissimo: la necessità di ricucire. Perché anche l’uomo ha bisogno di essere rammendato e non gettato via quando è troppo lacero, consunto: come il fondo di jeans troppo lisi, dopo un uso costante e talvolta smodato. Abbiamo imparato a dare un prezzo ad ogni cosa, ma non sappiamo più che valore dare a gesti, relazioni, persone, pensieri. Abbiamo un rapporto usa–e–getta che, dalle cose, pare essersi ormai trasferito alle persone. Quando qualcosa non funziona più, la buttiamo via. Quando una relazione non funziona più, la rompiamo. Quando una persona non ci piace più, ce ne andiamo. E perdiamo di vista – ogni giorno di più – la bellezza di ricucire, aggiustare. Pur nella fatica, nella difficoltà che richiede la pazienza di ripartire, di andare “oltre”, di provare quel miracolo di perdonare ed essere perdonati che apre la porta al rinnovamento di pensieri, relazioni e anche di se stessi.
In quest’ottica ritorna – forse – di più agevole comprensione quella tradizione che sa di abitudine di ritornare alla confessione in periodo di Quaresima, magari dopo tanto tempo. Essere perdonati aiuta a comprendere la nostra fallibilità e la necessità di “fare il punto” sulla propria crescita umana e spirituale. Come perdonare, del resto, se non si sperimenta che significhi essere perdonati?
Sul Calvario, Cristo ebbe la compagnia di un paio di mascalzoni; e viene il dubbio che siano stati più onesti e sinceri di tanti di noialtri. Sì: anche il “cattivo”. Almeno, ha avuto l’onestà di parlargli “alla pari”, non si è fatto forte di un’autorità – politica o religiosa – calata dall’alto, con cui sovrastare l’interlocutore. Ecco che allora, la Pasqua diventa festa per tutti, anche e soprattutto per chi ha sbagliato. È incredibile sentire che anche tra chi è cristiano ci sia la convinzione che il peccato sia incancellabile (o almeno, alcuni di questi), motivo per il quale non è ritenuto possibile il “recupero” di un detenuto. Chi sbaglia è “macchiato” per sempre. Quasi che ci possano essere sbagli che superino la misericordia divina, e umana.
Forse – anche se probabilmente non basterà – dovremmo ri-iniziare dalla famiglia di Nazareth e da quella mentalità di ricostruzione che, ai giorni nostri, pare dimenticata.