D’una bellezza inconsueta. C’è un’ora nel Vangelo in cui il nostro Amico ci fa il regalo più sorprendente: non è un oggetto, nemmeno un beneficio. Potremmo chiamarla confidenza, ma una confidenza così totale e profonda che non è solo una parte intima di lui, ma è il suo tutto, l’essenza ultima e trasparente di Se stesso. In quell’ora, infatti, l’Amico si fa per noi d’una bellezza insopportabile, si trasforma tutto in un’armonia, ci sorride come non era mai avvenuto e forse basta quel suo splendore, quel suo farsi trasparente rinunziando alle parole perché dentro il cuore dell’uomo nasca l’impulso di dirGli: “Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e un per Elia”. A proferire parola è la voce rauca di Pietro, il pescatore di Galilea: parla a nome di Giovanni e di Giacomo, i suoi compagni che hanno goduto quel privilegio. Il privilegio di mostrarsi in quel miracolo di bellezza Gesù di Nazareth lo riserva a quei tre: non li ha scelti in base alla dignità, ma senza calcoli del cuore. Non sono apostoli, sono amici. Li ha scortati fin lassù, silenzioso, inerpicandosi sul crinale di austeri sentieri di montagna. Tre uomini, non dodici, devono ricevere quell’anticipazione del Regno, devono sapere come Lui è davvero. Perché non è uguale come tutti gli altri giorni. Per un istante vuole deporre la sua camuffatura d’uomo, fare le prove per vedere se, gettata la maschera, la loro amicizia resiste o si traduce in paura. E l’amicizia resiste. Agli occhi di quei tre beduini che si risvegliano dal sonno in cui la stanchezza della marcia li aveva gettati, quel Gesù smagliante come il principe di una favola non è uno straniero, neppure il personaggio di un sogno che continua.
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
(Dal Vangelo di Marco cap. 9 vv. 2-10)
È finalmente, in tutta la sua credibile naturalezza, il Signore. Quell’ebreo vestito d’un povero mantello, stinto dal sole e dalla pioggia, con la faccia sbattuta dalla stanchezza e dai digiuni ora cancella i dubbi sulla sua figliolanza divina. Nessuna paura, nessun ripudio figurarsi. E l’anelito di fermarsi in compagnia di quei tre costringe Pietro all’ennesima sparata indisciplinata e fuori luogo: “Maestro, è bello per noi stare qui”. Davvero bello: ha ragione Pietro. È buona cosa, è tentazione di noi che siamo fatti per gli incanti, fermarci dove si è felici, dimenticare giù nel caos della valle le tribolazioni e il destino degli altri che non sono stati prescelti, nasconderci in quel pugno di miseria dove il cielo sembra accarezzare la terra. Marco, lo scrittore che ha scarabocchiato nelle pergamene la sorpresa di quest’incontro, giustifica Pietro: “Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento”. Invece la grammatica di Dio conosce un solo verbo: camminare. “Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce. Quando non potrai camminare veloce, cammina. Quando non potrai camminare, usa il bastone. Però non trattenerti mai!” (Teresa di Calcutta). Ecco la tua prima e sbadata viltà, caro Pietro. Tanto che basta poco perché la gioia si dissolva. Ecco i tre amici caduti per terra che battono i denti con grande timore. Una nube li ha avvolti e dentro il buio una voce è risuonata: “Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo”. L’Altro, il Padre, entra nel gioco a scombussolare le carte, entra nel gioco e daccapo tutto si rompe, riaffiora la paura. Quanto meschini siamo io e te Pietro: perché Cristo noi lo vorremmo orfano, senza quella corda che lo aggancia al mistero, che s’immerge troppo alta nei cieli. “Alzatevi, non temete”. Sul Monte della Trasfigurazione ne fanno le spese Pietro, Giacomo e Giovanni (non gente qualunque: gente avvezza all’imprevedibilità del Maestro). Gli manifestano la loro gioia, la bellezza d’essere lassù, la luce di quella presenza. E propongono tre tende da montare: un giochetto per manovali esperti come loro. E, puntuale, la sferzata di Dio: “Scendete a valle: il vostro posto è là in mezzo a loro!”. In realtà Lui è sincero: promette di esserci. Ma la sua presenza l’avverti solo quando sei per strada.
Tornano a valle tutti e quattro, sul fare del giorno. Pietro, scodinzolando giù per il sentiero, vagheggia imbronciato le sue tre tende là in cima, quel dolce vivere in pochi, senz’affanni, senza mai più morire. Davanti ha le spalle di Gesù, coperte del suo solito mantello stinto dal sole e dalla pioggia.
Un Uomo bello: bello da morire. In Croce, per amore dell’uomo.